▼ Il tweet del giorno

giovedì 27 settembre 2012

#Festivalfilo12: ripartiamo dalle cose che contano, dalla cultura che paga



Dal 14 al 16 settembre si è svolto a Modena il Festival Filosofia 2012. Il tema di questa edizione era "Le Cose" e mai come in questo periodo è risultato azzeccato. Perché oggi giorno (molto più di ieri) sono le cose a determinare molteplici aspetti della nostra vita. 

Sono le cose che il mercato ci induce a comperare, sono le cose che perdono il loro ruolo duraturo intergenerazionale perché ormai assuefatti dal consumismo usa e getta, sono le cose che non ci sono più, quelle andate distrutte, come le case, o rimaste sepolte da altre cose durante il sisma. Sono le fabbriche, i campanili. Ma le cose sono anche quelle che sono rimaste in piedi, quelle a cui rimaniamo legati, le cose sono quelle che si posso ricostruire. Ed ecco che nelle pieghe, tra le viti, i bulloni e i mattoni, le macerie, tra bambole e frigoriferi e antichi mobili la filosofia, la sociologia e l'antropologia si dipanano nel raccontarci delle cose, e del come noi le viviamo e le vivevamo le cose, o con le cose.

180.000 presenze quest'anno per un festival che ha posto sul piatto (come ogni anno) un programma a prima vista spesso non così alla portata di tutti. Modena, Sassuolo e Carpi colpita dal sisma hanno fatto il pienone, sono state all'altezza dello tsunami di persone nonostante qualche perplessità sulla possibilità che, dopo il 29 maggio, la zona fosse in grado di ospitare un simile evento. Ma la voglia c'era, i volontari pure e i filosofi anche. Il resto lo ha messo la partecipazione popolare. Stare qui ora a spiegarvi cosa è stato detto e come non ha senso, richiederebbe pagine e pagine ed esiste un sito del festival e articoli di giornale che lo fanno molto meglio.

Quello che però posso fare è cercare di raccontarvi il contorno. Piccoli episodi, come quello del mio amico che gestisce un B&B che mi raccontava di come avesse fatto tutto esaurito e di quei ragazzi venuti dalla Puglia che quando gli hanno chiesto cosa ci fosse da fare a Modena al suo elenco di pub e locali hanno risposto che no, loro volevano musei, biblioteche, cultura. E allora c'è speranza. E di più, la cultura paga e ripaga, in barba a quelli che si ostinano a vederla come una zavorra inutile nel paese. La cultura crea indotto, genera profitti e muove l'economia. Venite a chiederlo ai modenesi. 

E dalla cultura si può ripartire, anzi, si deve continuare se è vero che da settembre ad ottobre proprio nel triangolo del sisma sono andati comunque in scena due eventi culturali non da poco come Festival della Letteratura  a Mantova e Festival della Filosofia a Modena, mentre ad ottobre in quel di Ferrara avrà luogo il Festival di Internazionale. Se guardiamo alle presenze allora la risposta che ne viene spontanea è che la gente vuole cultura ed è disposta a pagarla se di qualità (a Mantova molti eventi richiedono l'acquisto del biglietto). E tutto questo solo per ascoltare, partecipare. Poi c'è la cultura da preservare, quella da restaurare e che sta andando in pezzi, cose, anche quelle, guarda a caso, e per cui da tutto il mondo vengono e pagano (a breve diremo venivano se non ci sbrighiamo). 

Ora applichiamo il discorso al formare cultura (nel suo concetto più ampio e generale), o meglio a formare competenze culturali di alto spessore. Solo chi non vuole vedere può negare.
Ecco, ripartiamo da qui, dalle Cose, quelle che contano, davvero.

Matteo Castellani Tarabini | contepaz83

Photo credit: Emanuela Carabelli


#Festivalfilo12: let's start again from the things that matter, from the culture that pays

From the 14th to the 16th September the Festival of Philosophy 2012 was held in Modena. The topic of this edition was "The things" and never before the title would have been more appropriate. Because nowadays (much more than yesterday), it's the things that determine multiple aspects of our lives.

It's things that the market makes us buy, it's the things that lose their lengthy intergenerational role because now we get used to disposable consumism, it's things that aren't there anymore, have been destroyed, just like the houses, or have remained buried by other things during the earthquake. It's the factories, the bell towers. But the things are also the ones that have survived, those to which we remain tied, the things are those that can be rebuild. And there in the creases, among the screws, the bolts and the bricks, the ruins, among dolls and fridges and old furniture the philosophy, sociology and antropology unfold in telling us the things, and how we live or lived things, or with things.

180.000 people this year for a festival that has offered (like every year) a program that might initially not seem easy to handle for everyone. Modena, Sassuolo and Carpi hit by the earthquake have been full, have been up to par for the tsunami of people despite a few perplexities on the possibility that, after the 29th of May, the area would be capable of hosting such an event. But the willingness was there, the volunteers and philosophers were also there. The rest was provided by popular participation. Sitting here and trying to explain what was said and how would require pages after pages and there's already a festival website and newspaper articles that to that much better already.

What I can do is try to tell you about the surroundings. Small episodes, just as the one my friend who manages a B&B told me about, of how he was sold out and of those young people from Puglia who asked what there was to do in Modena and after his list of pubs and discos they said that no, they wanted museums, libraries, culture. That means there is hope. And more, culture pays and repays, despite those that keep looking upon it as if it were a useless anchor for the country. Culture creates satellite industries, generates profit and moves economy. Come ask the Modenese.

And from the culture you can start over, you must continue if it's true that from September to October in the earthquake triangle two huge cultural events have taken place, such as the Literature Festival in Mantova and the Philosophy Festival in Modena, while in October there will be the Internazionale Festival in Ferrara. If we look at the attendees, the answer that comes naturally is that people want culture and is willing to pay if it's top quality (in Mantova many events require a fee). And all of this just to participate and listen. And then there's the culture to preserve, the culture to renovate and that is falling apart, things that people from all over the world come and pay to see (if we don't move quickly, we might say came).

Now let's apply the matter to forming culture (in the widest and most general concept), or better form cultural competences of high level. Only those who don't want to see can deny.

So, let's start again from here, from things, the ones that matter for real.

Matteo Castellani Tarabini | contepaz83

mercoledì 26 settembre 2012

Il caso #Sallusti: i pesi e le misure dell'informazione



Il direttore de Il Giornale condannato a 14 mesi in Cassazione, con pena sospesa, reo di "omesso controllo" su un articolo diffamatorio ai tempi della sua direzione di Libero. A leggere le reazioni sdegnate, pare che sia il primo caso, in tempi recenti, e invece...

Il 9 Luglio 2010 veniva arrestato il giornalista campano Gianluigi Guarino, ex direttore del Corriere di Caserta. Per lo stesso identico reato che si contesta a Sallusti e cioè l'omesso controllo, da parte di un direttore responsabile, di uno o più articoli diffamatori pubblicati sul giornale diretto.
Guarino è stato in carcere per un totale di 43 giorni, uscito per un ricalcolo sul condono a cui aveva diritto, e dopo essere stato condannato a poco più di un anno di detenzione.
Ci sono stati ben 43 giorni nei quali Guarino è stato l'unico giornalista, in Europa, in carcere per il reato che oggi solleva tanto scandalo intorno al compagno della deputata Daniela Santanchè.
Reazioni sdegnate anche da parte degli "avversari" storici di Sallusti e della sua linea editoriale, nonché del suo datore di lavoro.

Tutti novelli Voltaire, si fanno belli del fatto di dare una solidarietà, "oltre le opinioni", all'odiato collega.
Persino il Quirinale dichiarò, prima della sentenza, di "osservare la vicenda con interesse" (cosa che, siamo sicuri, non ha messo alcuna pressione ai giudici della Cassazione), Quirinale dove si vociferava che il Presidente Napolitano fosse addirittura pronto a firmare una grazia in caso di condanna. Solidarietà.
Solidarietà che Guarino ha ricevuto dall'UdC di Benevento, ai tempi, da altri giornali sanniti e da Assostampa, che però nel comunicato sbagliò anche il titolo della testata diretta ai tempi da Guarino.
E basta.

Questo per dire che anche Sallusti dovrebbe finire in galera?
Assolutamente no. La legge sulla stampa del 1948 è scandalosamente ingiusta e va cambiata. Probabilmente ora che un "ricco" ne viene toccato, qualcosa si muoverà.
Ma la vicenda dimostra che anche i "migliori" giornalisti non considerano la misura di un uomo come un parametro universale: un Sallusti a rischio di carcere, vale più di un Guarino in galera.

Francesco Lanza | @bedrosian


The Sallusti case: the weights and measures of information

The director of Il Giornale has been condemned to 14 months in jail, with suspended sentence, for "omitted control". By reading the reactions it would seem this is the first case, in recent times, but...

On July the 9th 2010 the Campania journalist Gianluigi Guarino, ex director of the Corriere of Caserta, was arrested. For the same crime that Sallusti is being accused of, omitted control, on behalf of a responsible director, of one or more diffamatory articles published on the newspaper they directed. Guarino has been in jail for a total of 43 days, out for a recalculation on the pardon he had rights on, and after being condemned to a little more than one year in jail.

There have been 43 days during which Guarino has been the only journalist in Europe who was in jail for the crime that today is making so much scandal around the fiancee of the Member of Parliament Daniela Santanchè.

Reactions of indignation also from the historical "enemies" of Sallusti and his editorial line, and of course of his employer. All novel Voltaires, they make themselves look good by showing solidarity beyond opinions, to their hated colleague.

Even the Quirinale has declared, before the verdict, that they were "observing the matter with interest" (which we are sure is something that doesn't put any kind of pressure on the judges), the same Quirinale where rumors say that Napolitano would have been ready to sign his grace in case he was condemned. Solidarity.

Solidarity that Guarino has received from the UdC of Benevento, in those times, from other sannite newspapers and from Assostampa, which in the official communication even managed to get the name of the newspaper directed by Guarino at the time wrong.

And that's it.

This is to say that Sallusti as well should go to jail? Absolutely not. The law on publications of 1948 is incredibly injust and should be changed. Probably now that a wealthy person is touched, something will move.

But the matter proves that even the "best" journalists don't consider the measure of a man as an universal parameter: a Sallusti who risks going to jail is worth more than a Guarino who is already in.

Francesco Lanza | @bedrosian

Lo #spread della Fuffa e il lancio di #HuffPostItalia



E’ arrivata anche la versione italiana dell’Huffington Post, credo che ce ne siamo accorti tutti dalla miriade di commenti che ne salutavano la venuta quasi “messianica”.

Il post che ho trovato più ricco e riassuntivo sull’argomento è quello di Pier Luca Santoro, il Giornalaio, che in La Rivoluzione non è Annunziata, fa un’ottima analisi, soprattutto sul fatto di fare impresa con fini di lucro usando del lavoro non retribuito. Qui andrebbe aperta una lunga riflessione sul concetto di lavoro intellettuale, da Bianciardi ad Abruzzese, che oramai è ridotto a meno di un gadget – costa meno un post che una spilla brandizzata. La domanda non è se è più o meno giusto scrivere gratis, quella può essere una scelta personale, ma diventa: è giusto non pagare il lavoro? Poi francamente vedendo l’attuale parco-blogger dell’Huffington Post mi sembra di essere fra i reduci dei talk-show televisivi.

Una questione che investe molti interessi, dal lavoro alla formazione post scolastica, e soprattutto che dovrebbe far riflettere sul destino dell’industria culturale italiana, che appare molto fosco per chi lavora al suo interno. Ci si riempie la bocca con il concetto di visibilità, parola-monstrum, che vuol dire tutto e nulla, perché per essere visibile non conta essere diversi, acuti e bravi, conta farsi notare. Allora il primo criterio non è più la qualità, ma altro.

Altro punto che alcuni sfiorano solamente è la questione dello specifico dei media. Io non ricordo che un buon direttore di giornale sia stato anche un buon direttore di telegiornale, ad esempio. Ogni media ha un suo linguaggio, dei codici, nonostante possiamo dire che il giornalismo ha dei principi cardine comuni. Però i linguaggi contano, anzi, a mio avviso restano i vari volani di cambiamento, le soglie con cui ci si misura se si vuole tentare innovazione. Allora perché l’Annunziata? Non si diventa “digitale” se si apre un account su Twitter, perché quello che conta è sempre la strategia editoriale, e qui già l’impaginazione sembra molto simile a quella de Il Fatto quotidiano online.

Oppure questo non è un progetto editoriale, questa è un’operazione politica che mira a scontrarsi con un suo opposto informativo, che ho citato prima, perché la questione è sempre più aspra. D’altronde siamo in campagna elettorale.

Simone Corami | @psymonic


The spread of jibberish and the launch of the Italian Huffington Post

The Italian version of the Huffington Post is now here, we probably noticed it thanks to the flood of comments that greeted its almost "divine" arrival.

The post that I found the richest and most complete on the topic is by Pier Luca Santoro, the Giornalaio, that in "The Revolution isn't Annunziata" makes a great analysis, especially on the fact of doing business for revenue using non retributed work. Here a long reflection should be done on the concept of intellectual work, from Biancardi to Abruzzese, that now is worth less than a gadget - a written post is cheaper than a brand pin. The question isn't whether it is right or wrong to write for free, that can be a personal choice, but it should be: is it right not to pay for labor? Then, looking at the current blogger team of the Huffington Post, I feel like I'm among the veterans of television talk-shows.

A matter that invests many interests, from work to post-school formation, and that especially should make us think about the destiny of the Italian cultural industry, that appears very bleak to those who work with it. We fill our mouths with the concept of visibility, monster-word, that can mean everything and nothing, because in roder to be visible you don't have to be different, acute and good at your job, what really matters is getting noticed. So the first criterium isn't quality anymore, it's something else.

Another matter that some only treat in a hurry is the matter of the media specifics. I don't remember any good newspaper director that has also been a good TVnews director, for example. Every medium has its own language and codes, although we can say that journalism has a few main universal principles. But languages are important, and in my opinion they remain the true promoters of change, the barriers you need to tackle if you want to innovate. So why Annunziata? You don't become "digital" by opening a Twitter account, because what really matters is the editorial strategy, and here even the way the whole thing is put together makes it look extremely similar to the Fatto Quotidiano online.

Or this isn't an editorial project, this is a political operation that aims to create a conflict with its informative adversary, that I named earlier, because the matter is getting harsher and harsher. But after all, it's the elections campaign.

Simone Corami | @psymonic

martedì 25 settembre 2012

#amiainsaputa: fenomenologia dello sperpero (e della non ammissione)



Ci risiamo.
C’era una volta Rutelli, che saputo di Lusi corse dall’Annunziata per dichiararsi estraneo ai movimenti all’interno dell’ex Margherita. Con quel dettaglio, trascurabile, che a capo dell’ex Margherita c’era proprio lui. E c’era anche Vasco Errani, governatore dell’Emilia Romagna. Quello che aveva dato, ma non lo sapeva, un milione di euro al fratello per la sua cooperativa.


Come dimenticare, poi, Formigoni: qualcuno gli aveva pagato le vacanze e lui, meschino, ne era completamente all’oscuro - se avesse dichiarato che qualcuno gli avesse fatto anche la valigia, sarebbe stato più credibile, viste le camicie.
Al ministro Scajola, poi, era successa quella cosa curiosa: una casa vista Colosseo in regalo. Ah si, ovviamente: a sua insaputa.

Vien da ridere, ma la lista si è allungata.
Deludente quanto il finale del Titanic, quando lo guardi per la decima volta e ancora speri, in un attimo di nonsense, che Leonardo di Caprio sopravviva. E spudoratamente prevedibile, come Berlusconi che promette di abolire l’IMU e non si fa vivo ad Atreju.

Perché non basta presentarsi in tv: l’evergreen “a mia insaputa” è stato tradotto in un delicatissimo “scopro oggi che”, ma il risultato è lo stesso; la Polverini a Piazza Pulita non sorprende, non stupisce, cade dalle nuvole e sgrana gli occhioni meravigliata. Tanto che, se mai fosse stata credibile, era da chiedersi come diamine avesse fatto, una così, ad arrivare a dirigere la Regione. Ma credibile non lo è stata, e se n’è accorta da sola: una fragile difesa e il faccino sorridente di una che ci costa 12.000 euro al mese e pretende che noi, da questa parte, ci accontentiamo dei “non sapevo”, o dello scaricabarile con la precedente direzione (“Questo sistema viene da molto lontano”). Insomma, qua qualche taglio si deve fare, ma non (solo) quelli di cui si è discusso in Consiglio - qualche testa deve cadere, o sarà l’ennesimo vaso di Pandora scoperchiato e poi riposto, nella burla collettiva, di nuovo nella credenza.

Delle paventate dimissioni, del resto, nemmeno l’ombra almeno fino a ieri sera: dopo le teatrali minacce dello scorso lunedì pareva aver ritrovato la fiducia in se stessa dando il via all’operazione di pulizia all’interno del Pdl all'interno della regione Lazio. La stoccata, in risposta a Bersani, pareva essere la chiave di volta (o una di esse) su cui sorreggere tutto: "Dice che mi devo dimettere ma mi deve spiegare perché non lo ha fatto lui davanti alle vicende Lusi e Penati". Perché basterebbe così poco, per distinguersi da una sinistra che non si aiuta; buffo, basterebbe un centro destra non migliore di se stesso, ma che semplicemente esca vincitore dal confronto, per accaparrarsi se non voti, quantomeno approvazione.

Eppure l’uomo dietro al partito, l’attaccamento alla poltrona - oltre il colore politico - la fa da padrone: ecco che, puntuale, la Polverini si uniforma al mood della non ammissione e si confonde, inesorabile, nel mucchio scaricando a zero, durante la conferenza stampa, su molti di quelli che le ruotavano attorno e di cui, come in altre vicende simili, era quasi impossibile non sapesse niente. Ora la chiave di volta si è rotta, il castello sta piano piano sgretolandosi e la Polverini, più che aver deciso di dimettersi, è apparsa come una costretta a scansarsi dall'inevitabile peso delle macerie politiche.

Carol Verde | @car0lverde


I didn't know: phenomenology of waste

Here we go again.
There was Rutelli, who as soon as he knew about Lusi ran to Annunziata to declare himself unaware of the movements inside the ex Margherita. With the small detail that he was the head of the ex Margherita.
And then there was Vasco Errani, governor of Emilia Romagna. The one who gave, not knowing, one milion euro to his brother for his cooperative business.

How to forget Formigoni: someone had paid for his vacations and he - poor devil - was totally unaware of it - if he had declared that someone else had also prepared his suitcase, he would have been more credible, judging by the shirts.
Minister Scajola also had a strange experience: he got an appartment with a view on the Colosseum as a gift. Of course, he didn't know.

It's almost to laugh of, but the list has grown longer.
Disappointing like the finale of the Titanic, when you watch it for the tenth time and you still hope, in a moment of nonsense, that Leo di Caprio will survive. And shamefully predictable, like Berlusconi who promises to cancel the IMU tax and then doesn't show up at Atreju. Because it's not enough to be on TV: the "I didn't know" evergree has been translated ina  delicate "only today I discover that", but the result is the same; Polverini at Piazza Pulita doesn't suprise, doesn't say anything new, she falls from the skies and opens her eyes wide in disbelief. So much that, if she had been credible, we should wonder how come someone like her managed to direct the Region. But she wasn't credible, and she realized it by herself: a fragile defense and the smiling face of a woman that costs us 12.000 euro a month and pretends that we cope with "I didn't know", or "this system was like this since a very long time". So, some cuts are needed, or this will be another Pandora box that is opened and then put away in the drawer yet again, in the midst of the collective joke.

Of the promised resignment, by the way, not even a shadow at least until yesterday night: after the theatrical threats of last Monday it seemed that she had regained trust in herself starting the cleaning operation inside the PDL of Lazio. The poke, in response to Bersani, seemed to be the keystone (or one of them) on which to sustain everything: "He says that I should resign but he must explain why he didn't in front of the Lusi and Penati cases". Because it would be so easy to distinguish yourself from a Left that isn't helping; curious, it would be enough to have a center right not better than itself, but that simply wins in the comparison, to gain not votes, but approval.

And yet the man behind the party, the love for the chair - beyond the political color, yet again win it: and so Polverini uniforms herself to the mood of non admission and she gets confused, inesorably, in the midst of the scandal, blaming others during the press conference, many of which were close to her and of which it was impossible that she didn't know anything. Now the keystone is broken, the castle is falling apart and Renata Polverini, more than deciding to resign, seems more like she's constrained to avoid the inevitable weight of the political ruins.

Carol Verde | @car0lverde 

lunedì 24 settembre 2012

Twitter e il gioco pericoloso delle API



C’eravamo tanto amati. Più o meno è questo il rapporto che contraddistingue Twitter e i suoi utenti, ormai bistrattati e costretti all’angolino mentre la piattaforma cerca disperatamente di trovare stabilità e un appiglio per la propria sostenibilità economica, sperimentando nuove vie per scucire qualche soldo ad investitori con campagne di tweet “promossi” e altre amenità che all’utente medio non fanno che provare (abbastanza) ribrezzo.

D’altra parte è anche vero che le piattaforme di social media non sono ONLUS; devono quindi trovare un modo per stare bene o male a galla, pena la chiusura di baracca e burattini. Negli ultimi tempi però Twitter ha giocato un po’ troppo col fuoco, e i risultati si vedono: la chiusura delle API a determinati usi indirizzando la piattaforma verso un form factor ben preciso e senza dare nulla in cambio ha generato malcontento oltre ogni aspettativa. L’ultima tra le delusioni è avvenuta proprio ieri mattina, quando gli utenti si sono trovati “castrati” della possibilità di fare upload di immagini su servizi di terze parti.

Come possiamo intendere questo cambiamento? Beh, da parte della piattaforma è stato un miglioramento arrivato col tempo: esattamente come tante altre cose, visualizzare le immagini incluse nei tweet ed integrarsi con servizi esterni è risultato essere un must, se vogliamo, per far crescere il servizio e migliorare l’esperienza utente. Ora la marcia indietro: è perfettamente lecito da parte di Twitter, che ormai comincia a diventare un organismo a metà tra una media ed una advertising company, dire “io ti ho dato il giochetto, e io ho il potere di levartelo”.

Così come è legittimo per puro ruolo poter chiudere la piattaforma a client esterni e fornire loro una versione mutilata delle modalità di interazione col network, facendo così risaltare di una brillantezza falsa i client ufficiali, che non hanno nessun limite. Tuttavia, una piattaforma si nutre di utenti, e Twitter rischia di vedere il proprio tracollo proprio per colpa della monetizzazione che tanto sta cercando, andando ad intaccare la libertà degli utenti i quali potrebbero sentirsi presi in giro.

È veramente un bene per Twitter cercare di creare un ecosistema coeso in maniera così coatta, talmente coatta da suscitare il malcontento di più di qualcuno? In fondo, la ricchezza di questo social network non è mai stata nelle centinaia di migliaia di Beliebers e Directioners, puri sfruttatori del mezzo, quanto nei power user: sono stati i power user a donare a Twitter le sue feature migliori, ed è stata la comunità che ha decretato il successo di determinate meccaniche, al punto che non è stato possibile fare altro che integrarle in maniera migliore con la piattaforma.

Il retweet è stato inventato dagli utenti. Così come le reply, ed esattamente come gli hashtag. La stessa app per iPhone fece la sua prima comparsa come un’applicazione di terze di parti (Tweetie), successivamente “comprata” dal colosso americano. E chiudere le proprie API per Twitter significa proprio questo: dare una falciata alla community, che è sempre stata l’attrice che ha reso il network migliore con il suo apporto rivoluzionario, costruendo uno dei più grandi mezzi di tutti i tempi. È così: Twitter ha la facoltà, ma non il diritto di portare via l’ecosistema agli utenti, poiché ne è stato fortificato oltre ogni modo e l’unica maniera che ha per ringraziare è continuare a stimolare questa crescita.

Si manifesta così una schizofrenia all’interno dello sviluppo di Twitter, dove l’ingranaggio continua ad essere fortemente promotore ed utilizzatore delle tecnologie open source, ma all’atto pratico poi chi lo gestisce deve in qualche modo limitare il comportamento, se vogliamo, “creativo” degli utenti, consentendo il riuso dei software, il fork di alcuni dei componenti, ma non la libertà assoluta nell’attingere al servizio - che oltre le moltissime feature introdotte dai power user negli anni, può contare anche su una serie di servizi collaterali che ne hanno decretato un ingigantimento impressionante nel tempo, facendo si che Twitter soddisfacesse anche esigenze particolari e rendendo il tutto simile all’acqua, che si infila in ogni fessura in maniera pervasiva.

Mi auguro di vedere Twitter monetizzare il suo traffico il prima possibile e nel migliore dei modi. È stato bello, finché è durato, finché le API del servizio sono state uno dei migliori parchi giochi che uno sviluppatore potesse avere.

Alessio Biancalana | @dottorblaster


Twitter and the dangerous game of APIs

We had been so much in love. This is more or less the relationship between Twitter and its users, now illtreated and constrained in a corner while the platform desperatly tries to find stability and a support for its economical sustainability, experimenting new ways of getting money from investors with promoted tweets campaigns and other marvels that the medium user simply finds disgusting.

On the other hand it is also true that social media platforms aren't NPOs; they must find a way to survive, or else they risk closing. These last few months Twitter has been playing with fire, though, and the results are visible: closing the APIs to determinate uses and taking the platform to a well defined form factor without giving nothing in change has generated a lot of discontent. The most recent of disappointment is just a few days old, when users have discovered they cannot upload images on third party services anymore.

How can we interpret this change? Well, for the platform it has been a change for the better that came in time: just as many other things, visualizing images included in tweets and integrating with external services has proved to be a must, if we want, to make the service grow and make the user experience better. Now the steps back: it's perfectly legit on behalf of Twitter, that now is becoming an organism halfway between a medium and an advertising company, to say "I gave you the toy, and I have the power of taking it away from you".

Just as it is legit to close the platform to external clients and offering them a mutilated version of the interaction modalities with the network, making the official clients glow of a false light, because they don't have limitations. However, a platform is nourished by clients, and Twitter is risking to see its undoing because of the monetization it is so desperately looking for, attacking the liberty of users who might feel like they're being made fools of.

Is it truly a benefit for Twitter to try to create a cohesive ecosystem in such a constrained manner, so constrained that it makes people unhappy? In the end, the wealth of this social network has never been in the hundreds of thousands of Beliebers and Directioners, who only took advantage of the tool, but in power users: it was power users who donated to Twitter its best features, and it has been the community to decree the success of certain mechanics, to the extent that they could only integrate them in a better way with the platform.

The retweet has been invented by users. Just as replies, and hashtags. Even the iPhone app appeared for the first time as a third party application (Tweetie), then bought by the American giant. And closing the APIs for Twitter means just that: cutting down the community, which has always been the protagonist that has made the network better with its revolutionary contribution, building one of the greatest mediums of all time. This is how it is: Twitter has the possibility, but not the right to take away the ecosystem from users, because they have fortified it in every way and the only way to thank them is continuing to stimulate this growth.

This is how the schizofreny is manifested inside the development of Twitter, where the machine continues to be a strong promoter and user of open source technologies, but in reality who manages it must somehow limit the creative behavior of users, allowing the re-use of software, the fork of some components, but not the absolute liberty to access the service - that beyond the many features introduced by power users during the years, can also count on a series of collateral services that have determined an incredible growth in time, making sure that Twitter could satisfy common as well as particular needs, and making it similar to water, that goes in every hole in a pervasive manner.

I hope to see Twitter monetize its traffic as soon as possible and in the best of manners. It's been great until it lasted, because the APIs of this service have been one of the best playgrounds a developer could hope for.

Alessio Biancalana | @dottorblaster

domenica 23 settembre 2012

StartupID | Carlo Crudele @twoorty di Twoorty



La ventiseiesima intervista di StartupID è con Carlo Crudele di Twoorty.



StartupID è la rubrica realizzata in collaborazione con Indigeni Digitali e dedicata al mondo delle startup.


Innanzitutto abbiamo chiesto a Carlo che cos’è Twoorty e come è nata l’idea del progetto: si tratta di un social network diverso dai soliti social network a cui siamo abituati. L’idea nasce da una considerazione semplice, ovvero che ci sono sempre più contenuti e sempre meno tempo per filtrarli e fruirli. Si è sentito il bisogno, dunque, di un social network sempre più focalizzato sul singolo utente.

Dopo una breve analisi, sono arrivati alla conclusione che l’elemento legante tra utenti, almeno sui SN, è l’interesse comune per una determinata tematica, piuttosto che uno sterile “contatto” o amicizia. L’obiettivo è dunque entrare in contatto e scambiare opinioni riguardo a quel tema.

Twoorty nasce dunque dall’idea che le persone possano connettersi non più per amicizia ma per interessi in comune: quando ci si iscrive sembra un social network classico, ma poi si richiede all’utente di specificare alcuni argomenti a cui si è interessati. Da quel momento in poi, verranno pubblicate in bacheca soltanto quelle notizie che possono essere interessanti e appassionanti per quello specifico utente. [video]

Si tratta di un sistema abbastanza complesso che il team sta cercando di tarare con diversi meccanismi, in modo che la user experience sia quanto più focalizzata e targettizzata possibile. In primo luogo grazie a un sistema di ranking e rating dei contenuti, che in base alle votazioni della community vengono diffusi di più o di meno, e possono salire ai primi posti di una graduatoria. In secondo luogo attraverso il riconoscimento automatico del contenuto inserito: man mano che Twoorty riconosce le interazione dell’utente, infatti, affina i suoi gusti e diventa sempre più preciso nel selezionare quegli argomenti che sono vicini agli interessi dell’utente stesso, e rendere l’esperienza sul social network quanto più mirata possibile. [video]

La piattaforma è in lenta ma costante crescita: si è creato un nocciolo duro di aficionados che lo usa in maniera consapevole, e che sa benissimo come si differenzia Twoorty dagli altri social network. Si tratta di circa 2.500 persone, e i numeri sono in crescita: inoltre è già prevista l’internazionalizzazione del prodotto, traducendolo inizialmente in lingua inglese ed esportandolo nei paesi anglosassoni. Per ora l’obiettivo principale è dare stabilità e creare una community forte che abbia gli strumenti per parlare, interagire, e far emergere il valore di Twoorty. [video]

Per quanto riguarda l’integrazione con i social network e le piattaforme di content curation già esistenti, Carlo ci ha svelato che al momento è già possibile far interagire Twoorty con i social network più grandi (Facebook, Twitter, Google +), ma la cosa più interessante sarà la possibilità di inserire lo stream del proprio blog in Twoorty, in modo che i post pubblicati sul blog appaiano direttamente nell’account della piattaforma. [video]

Questo passaggio è molto importante perché permette al blogger di raggiungere una platea nuova, che altrimenti non sarebbe stato possibile raggiungere in alcun modo, ma soprattutto conoscere persone che condividono gli stessi interessi.

Abbiamo chiesto a Carlo quale sia il modello di business di Twoorty, e lui ci ha detto che al momento si cerca di creare valore in una community consapevole, che non è un valore immediatamente economico. I potenziali modelli di business sono tanti: quello a cui si sta pensando in questo periodo è quello della vendita dei propri contenuti, che siano articoli, video, o brani audio. Il valore di questa implementazione è potenzialmente altissimo, perché si raggiungono le persone interessate a quel contenuto: la stessa logica verrà implementata per gli esercizi commerciali, ai quali verrà inizialmente garantito un plafond gratuito. In seguito sarà possibile scegliere un abbonamento, sapendo che comunque il tasso di conversione sarà molto più alto rispetto alla pubblicità sui giornali oppure su volantino. L’ingresso in Twoorty, tuttavia, sarà sempre gratuito. [video]

Per chi volesse approfondire l’argomento e provare Twoorty, è possibile già trovare alcune novità interessanti.

In chiusura abbiamo chiesto a Carlo quali sono gli obiettivi economici e le prospettive di crescita per i prossimi 6-12 mesi.

Vi invito naturalmente a visionare l’intervista completa, molto più ricca di questa mia breve sintesi!

Buona visione!

Maria Petrescu | @sednonsatiata


StartupID | Carlo Crudele of Twoorty

The 26th interview for StartupID is with Carlo Crudele of Twoorty.

First of all we asked Carlo what Twoorty is and how the idea for the project was born: it is a social network that is different from other social networks we might b used to. The idea comes from a simple consideration, which is that there is a lot of content and very little time to filter and enjoy them all. So there is the need for a social network that is more focalized on the single user.

After a brief analysis, they came to the conclusion that the element that connects all users, at least on social networks, is the common interest for a certain topic, more than a sterile "contact" or friendship. The goal is to get in touch and exchange opinions about that topic.

Twoorty is born from the idea that people can connect not by friendship, but by common interest: when you sign in it looks like a classical social network, but then the user is asked to specify some topics he's interested in. From that moment onward, he will see only the news that can be interesting and engaging for him. [video]

It is a quite complex system that the team is trying to set with several mechanisms, so that the user experience can be as focalized and targeted as possible. First of all thanks to a ranking and rating system for content, which based on the votes of the community are then spread more or less, and can get at the top of a graduatory. Secondly thanks to the automatic identification of the inserted content: as Twoorty recognizes the interactions of users, it manages to refine their taste and become more precise in selecting those topics that are near the interests of the user himself, and make the experience on the social network as targeted as possible. [video]

The platform is growing slowly but steadily: there is a core of aficionados that use it in an aware manner, and that knows very well what the differences between Twoorty and other social networks are. We're talking about 2.500 people, and the numbers are climbing: the internationalization of the product is already planned, with an initial translation in English. For now the main goal is making it stable and creating a strong community that can have the tools to talk, interact, and make the value of Twoorty emerge. [video]

As for the integration with other social networks and content curation platforms that are already out there, Carlo has told us that at the moment it is already possible to make Twoorty interact with bigger social networks (Facebook, Twitter, Google +), but the most interesting thing will be the possibility of integrating the RSS stream of the blog inside Twoorty, so that the posts published on the blog can appear directly in the account of the platform. [video]

This passage is very important because it allows bloggers to reach a new audience, which would have been impossible to reach in any other way, but especially meet people who share their same interests.

We asked Carlo what Twoorty's business model is, and he told us that at least now they're trying to create value in an aware community, which isn't an immediately economical value. The potential business models are many: the one they're thinking about now is selling their content, let it be articles, videos, or audio files. The value of this implementation is potentially very high, because it reaches people interested in that content: the same logic will be implemented for brands, which will initially have a free plafond. Later it will be possible to choose a paid plan, knowing that the conversion rate will be higher than paper ads. However signing up will always b free. [video]

For those who want to know more and try out Twoorty, there are some interesting features that you can check out at Twoorty.com.

Finally we asked Carlo what the economical goals and the growth perspectives for the next 6-12 months are.

I invite you to view the full interview, much richer than my brief synthesis.

Enjoy!

Maria Petrescu | @sednonsatiata

I supereroi ai tempi dei social media



Il successo di critica e di pubblico raccolto dal terzo capitolo della trilogia di Batman diretta da Christopher Nolan, la cui trama è ben raccontata da Fabio Chiusi, è stato da un certo punto di vista una grossa sorpresa, per chi si aspettava un riadattamento in funzione dei tempi.

Sarebbe stato logico aspettarsi non più un giustiziere solitario ma un non-protagonista, un’espressione di una volontà collettiva, magari con un finale dove il supereroe in difficoltà viene aiutato da una collettività, proprio come nella scena finale di “V come vendetta” dove insorgono i cittadini, mascherati da Guy Fawkes.

Alcune riflessioni sui recenti cambiamenti nella società (condizioni, abitudini, rischi) possono quindi aiutarci a capire se in tutto questo c’è dell’anacronismo.

I supereroi, miti creati dall’uomo fin dalla notte dei tempi e ripresi all’inizio del secolo scorso sotto forma di storie a fumetti, vennero ben presto utilizzati come elemento di propaganda antinazista durante la Seconda guerra Mondiale e anticomunista durante la guerra fredda. Lo stesso Magneto degli X-Men trascorse parte della sua infanzia ad Auschwitz.

In Italia, Superman dovette cambiare nome a favore dei più autarchici Ciclone, Uomo d'acciaio e Nembo Kid.

Il supereroe era più vicino al superuomo di Nietzsche, alle visioni emersoniane e alla Disobbedienza civile teorizzata da Henry David Thoreau. Oggi, più che un “uomo forte” sarebbe un uomo influente.

Chi è il supereroe? Il supereroe è una figura iconica che possiede abilità straordinarie che utilizza per combattere tutto ciò che mette in pericolo il territorio in cui vive e la sua popolazione (a volte, persino l’intera umanità).

Chi sono i supereroi al tempo dei social media? Li puoi riconoscere forse dall’elmetto giallo dei minatori della Carbosulcis, oppure puoi trovarli in mezzo agli operai dell’Alcoa. Sono sporchi, sudati, disperati e determinati, espressione di un territorio difficile: il Sulcis, moderne Termopili.

E i pompieri dell’attentato di undici anni fa a Ground Zero, sia quelli sopravvissuti che quelli rimasti sotto le macerie, ancora oggi ricordati per il loro comportamento eroico? Non sono forse supereroi anche loro? In fondo, Gotham City ricorda sinistramente New York, no?

Impossibile non pensare anche alle Paraolimpiadi appena concluse, dove un uomo di nome Alex Zanardi a 45 anni stravince due medaglie d’oro, una per ogni gamba che il destino gli ha portato via, ma risparmiandogli miracolosamente la vita dopo che in precedenza gli aveva offerto la notorietà come pilota di F1. Vittorioso con record alla maratona di New York, campione italiano di ciclismo su strada, campione nella vita, è stato insignito delle massime onorificenze a cui possono ambire cittadini e sportivi italiani. E’ sufficiente per essere considerato un supereroe?

Bradley Manning, due volte candidato al Nobel per la pace, ha finora trascorso 847 giorni di carcere durissimo senza nessuna incriminazione formale. Ha osato come nessuno prima di lui in nome della libertà d’informazione della quale è oggi il simbolo. Se non è un supereroe questo...

Che abilità deve possedere? Una volta il supereroe doveva possedere una forza sovrumana, saper volare, trasformare il proprio corpo in qualcosa di diverso, essere presente nel luogo e nel momento stesso in cui un evento grave avveniva. Oggi deve avere il coraggio di denunciare pubblicamente un sopruso, deve sapere comunicare attraverso qualsiasi medium, deve sapere coinvolgere e abilitare le folle, deve avere una rete di relazioni con persone che possono essere ovunque e in qualsiasi istante al posto suo.

Chi stabilisce chi è un supereroe? Supereroe si nasce o si diventa? Lo si diventa, inconsapevolmente: lo stesso Clark Kent aveva acquisito i superpoteri solo come reazione al cambiamento di atmosfera rispetto al pianeta Krypton. Una volta, però, era il supereroe stesso che si palesava alla società e si autoeleggeva tale quando scopriva di avere dei poteri particolari oppure spinto da giustizialismo. Agiva in difesa della massa, della quale però non gli interessava l’opinione perché agiva per soddisfare un proprio desiderio. Il supereroe era figlio delle storture della società, la stessa che ne aveva provocato la metamorfosi colpendolo profondamente e intimamente.

Oggi il supereroe è prima di tutto un leader riconosciuto come tale dalla massa e non potrebbe esistere senza questo appoggio. Attraverso i social media, chiunque può riuscire a ottenere grande visibilità e questo facilita il processo di creazione dei supereroi da parte della società. E’ un ruolo a tempo determinato, che cessa appena la massa comincia a credere che non sia più una figura credibile.

E’ rappresentativo? Una volta, il supereroe prendeva le distanze dalla società che lo ha partorito, andandovi a colmare una lacuna esistente sviluppando le qualità necessarie.
Oggi il supereroe è diretta espressione delle necessità delle folle, delle quali è interprete volontario o involontario.

E’ invincibile? Una volta, il supereroe era quasi invincibile, a causa di punti deboli (come la kryptonite per Superman) che però gli conferivano un tocco di umanità.

Oggi questo è indifferente, perché l’ecosistema in cui si muove segue modelli a rete ed è autoadattativo. Morto un supereroe, se ne fa subito un altro.

Che aspetto e identità ha? Bello come il sole e palestrato, compiva atti di eroismo esclusivamente indossando un costume che ne metteva in risalto la prestanza fisica. Il viso era coperto da una maschera per celare l’identità; Superman faceva eccezione, in quanto riusciva a non farsi identificare come Clark Kent nonostante si togliesse unicamente gli occhiali.

Oggi la maschera è quella di Anonymous e compare non solo per celare l’identità (ed evitare ritorsioni) ma anche quando si vuole negare l’identità personale in favore di una collettiva.

Dove vive? Una volta il supereroe viveva nelle grandi metropoli: caotiche, multietniche, piene di contraddizioni. Come New York. Oggi, con i social media che abbattono le barriere spaziali e temporali, potrebbe benissimo trovarsi nella periferia del mondo o vivere in un non-luogo.

Che simbolo usa? Il simbolo è fondamentale per affermarne l’identità. Oggi potrebbe essere un hash, un hashtag, un avatar, un glider o un like.

In che condizioni economiche vive? Il supereroe dei fumetti spesso è ricco e non ha bisogno di lavorare, così da avere molto tempo libero per combattere i nemici della società. Il supereroe di oggi se ha molto tempo libero è perché non ha un lavoro, ce l’ha saltuario o rischia di perderlo. Spesso proprio la motivazione economica è alla base delle sue azioni.

Chi sono i suoi nemici? I nemici classici del supereroe non erano generiche ingiustizie sociali ma singoli personaggi che alteravano gli equilibri della società. Al contrario, oggi sono la crisi economica internazionale, il tentativo di limitare la libertà di espressione sui media digitali, le dittature.

E’ amato oppure odiato? Oggi basta una frase fuori luogo per passare da salvatore della patria a persona da dileggiare, alla velocità di un tweet. La spontaneità paga, ma i rischi per la propria reputazione sono molti.

La differenza principale però è proprio che il supereroe classico agisce per riportare l'ordine e ristabilire equilibri consolidati. La sua opera è considerata infatti tranquillizzante.

Al contrario, il supereroe al tempo dei social media è destabilizzante, punta a sovvertire radicalmente e brutalmente gli ordini precostituiti, visti come inquinati dalle ingiustizie sociali. Per questo motivo è malvisto dall'establishment, ma può contare sull'apporto della base di persone nelle sue stesse condizioni. E' tutto sommato una figura positiva perché distrugge per ricostruire meglio. Fino al successivo inquinamento, quando tornerà per distruggere e ricostruire ancora.

Roberto Favini | @postoditacco


Superheroes in the times of social media

The critics and public success gained by the third chapter of the Batman trilogy, directed by Christopher Nolan, for which the story has been very well told by Fabio Chiusi, has been from some points of view a big surprise, at least for those who expected a re-adaptation according to times.

It would have been logical to expect not a solitary justice maker but a non-protagonist, an expression of collective will, eventually with a finale where the superhero in distress is helped by a multitude of people, much like in the final scene of "V for Vendetta", where citizens revolt dressed in Guy Fawkes outfits.

Some thoughts about the recent changes in society (conditions, habits, risks) can help us understand whether in all this there is any anachronism.

Superheroes, myths created by man since the beginning of time and turned into comic books at the beginning of the last century, have been utilized very soon as an antinazi tool of propaganda during WWII, and anticomunist during the Cold War. Even Magneto of the X-Men spent part of his childhood in Auschwitz.

In Italy, Superman had to change name in favor of Ciclone, The Steel Man and Nembo Kid.

The superhero was closer to Nietzsche's superhuman, to the Emersonian visions and the Civilian disobbedience theorized by Henry David Thoreau. Today, more than a "strong man", he would be an influential man.

Who is the superhero? The superhero is an iconic figure that has extraordinary abilities that he uses to fight everything that puts in danger the territory in which he lives and its population (sometimes, the entire humanity).

Who are superheroes in the times of social media? You can probably recognize them from their yellow helmet of the Carbosulcis miners, or you can find them among the Alcoa workers. They're dirty, sweaty, desperate and determined, expression of a difficult territory: the Sulcis, the modern Thermopilis.

And the firefighters of the attack eleven years ago at Ground Zero, both the ones who survived and the ones who remained under, who are still today remembered for their heroic behavior? Aren't they superheroes as well? After all, Gotham City is incredibly similar to New York, isn't it?

Impossible not to think about the ParaOlympic Games that have just finished, where a man called Alex Zanardi, at the age of 45 wins two gold medals, one for each leg that life took away from him, but miraculously giving him his life after offering him fame as a F1 pilot. Victorious with record at the New York marathon, Italian champion of cyclism, champion in his life, he has been given the highest honors that Italian citizens and athletes can hope for. Is it enough to be considered a superhero?

Bradley Manning, twice candidated for the Nobel Peace Prize, has been in jail for 847 days without any formal charges. He has dared as nobody before him, in name of that freedom of information of which he is the symbol today. If he's not a superhero...

What abilities does he have to have? Once, the superhero had to possess a superhuman force, he had to know how to fly, transform his body in something different, be present in the time and moment when something bad happened. Today he has to have the courage of publicly reporting   an abuse, know how to comunicate through any medium, know how to involve and abilitate crowds, must have a web of relationships with people that can be anywhere and anytime in his place.

Who decides who a superhero is? Is a superhero born or does he become one? He becomes one, without even knowing: even Clark Kent had gained his superpowers as a reaction to the change of atmosphere in relationship with Krypton. Once, however, it was the superhero himself that presented himself to society and elected himself as one when he discovered he had powers, or when he was driven by justicialism. He acted in defense of the masses, and didn't care about its opinion because he acted to satisfy his own desire. The superhero was a child of society deformations, the same that had caused its metamorphosis by striking him hard and deep.

Today the superhero is first of all a recognized leader and couldn't exist without the support of the masses. Through social media, anyone can obtain great visibility, and this facilitates the process of creation of superheroes on behalf of society. It is a timed role, that ends the moment when the crowds decide that he is no longer a credible figure.

Is he representative? Once, the superhero took his distances from the society that had created him, and filling the existing gap by developing the necessary qualities. Today the superhero is a direct expression of the necessity of crowds, of which he is a voluntary or involuntary interpreter.

Is he invincible? Once, the superhero was almost invincible, because of his weak points (such as kryptonite for Superman) that gave him a touch of humanity. Today this doesn't matter, because the ecosystem in which he moves follows models in a web and is autoadaptive. When a superhero dies, another one is born.

What does he look like and what is his identity? Handsome as the sun and very fit, he did acts of heroism exclusively while wearing a costume that enhanced his physical shape. The face was covered by a mask to hide his identity: Superman was a an exception, since he managed to not get identified as Clark Kent, even though he only took off his glasses.

Today the mask is the Anonymous one and appears not only to conceal identity (and avoid revenges), but also when you want to deny a personal identity in favor of a collective one.

Where does he live? Once the superhero lived in great metropolis: chaotic, multiethnic, full of contradictions. Just like New York. Today, with social media destroying spatial and temporary barriers, he could just as well live in the perifery of the world or in a non-place.

What symbol does he use? The symbol is fundamental to affirm his identity. Today it might be an hash, a hashtag, an avatar, a glider or a like.

In what kind of economical conditions does he live? The comic book superhero is often rich and not in need to work, so he has a lot of spare time to dedicate to fighting the enemies of society. The superhero of today has a lot of spare time because he doesn't have a job, he has a saltuary one or he risks to lose it. Often it is the economical motivation that drives his actions.

Who are his enemies? The classical enemies of the superhero weren't generical social injustices, but single characters that altered the balances of society. On the contrary, today the dictatorships are the international economic crisis and the attempt of limiting the liberty of expression on digital media.

Is he loved or hated? Today one single wrong sentence can take you from savior of the country to despicable person, at the speed of a tweet. Spontaneity works, but the risks for reputation are many.

The main difference, though, is that the classical superhero acts to re-establish order and balances. His work is considered in fact quite tranquilizing.

On the contrary, the superhero at the times of social media is destabilizing, he aims at radically and brutally changing the preconstituted orders, seen as polluted by social injustices. For this reason he is not seen with favor by the establishment, but he can coun on the help of those people who are in his same situation. He is after all a positive figure because he destroys in order to build better. Until the next pollution, when he will come back to destroy and rebuild again.

Roberto Favini | @postoditacco

venerdì 21 settembre 2012

Il vostro prossimo PC potrebbe costare meno di 30€



Lista di attesa di quasi tre mesi, più di cinquecentomila pezzi venduti in meno di un anno. Non stiamo parlando dell’ultimo modello di smartphone o di tablet, ma di un oggetto tecnologico di pochi millimetri, ottantacinque per cinquantadue per l’esattezza, il formato di un comune biglietto da visita.

Parliamo del Raspberri_PI , un mini PC SoC (system on a chip) basato su una manciata di componenti elettronici e poco più. Il chip principale è un Broadcom BCM2835, che contiene un processore ARM11 a 700mhz, una GPU grafica e 256Mb di RAM. Il resto della scheda è equipaggiato con gli interfacciamenti necessari a collegarsi al mondo esterno, una scheda ethernet, due porte USB, una uscita HDMI, una audio e una RCA, per utilizzarlo anche con i vecchi TV. A completare il tutto uno slot per scheda SD, la stessa che troviamo nelle macchine fotografiche digitali dove, in pochi minuti e con pochi semplici passi, possiamo trasferire una distribuzione Linux (ovviamente ricompilata per ARM) e rendere operativa la nostra schedina. Se vi state chiedendo quanto costa... beh, meno di trenta euro (forse meno di una “cover” del vostro nuovo smartphone).

L’utilizzo di una schedina come questa è molteplice: si parte dall’ avere un PC leggero e prestante, utilizzabile come client per le applicazioni più comuni, passando per un completo media center per vedere film, foto e sentire musica sul vostro TV, ma c'è chi ci ha già montato Android, o uno Unix, o ne ha messi in parallelo 64 per creare un supercomputer low cost.

Ma come è stato possibile coniugare alta tecnologia, basso prezzo e suscitare così tanto clamore? Per capirlo dobbiamo fare un salto indietro al  2009, quando viene fondata la “Raspberri PI Foundation”, supportata dall’Università di Cambridge (UK) e da Broadcom. Lo scopo è subito chiaro: l’obiettivo della fondazione è quello di “promuovere l’uso del computer a livello scientfico, specialmente a livello scolastico, e riportare il divertimento nel computing” (“put the fun back into learning computing”). A questo scopo vengono reclutati esperti del settore, compreso il famoso David Braben, ex creatore di videogiochi (ed ex studente della Cambridge University).

I lavori procedono per tutto il 2010 e 2011, quando vengono presentati i primi prototipi. Parallelamente allo sviluppo dell’ hardware vengono coinvolti anche sempre più tester, i quali si divertono a realizzare prototipi e a pubblicare i risultati dei loro esperimenti su blog e riviste, contribuendo non poco a creare l’attesa per il prodotto. Gli ordini vengono ufficialmente aperti il 29 Febbraio 2012, creando immediatamente il “sold out” presso i due fornitori designati a gestire la distribuzione, i quali si vedono costretti a limitare gli ordini ad un pezzo a persona, e a rilasciare date di consegna con tempi di attesa di anche tre mesi.

La forte e inaspettata richiesta ha anche mandato in tilt il sistema produttivo e di collaudo, che era stato pensato inizialmente per diecimila pezzi, mentre i preordini superavano già i centomila. Attualmente si stimano già cinquecentomila pezzi già venduti, innumerevoli progetti già realizzati e un ricco mercato di accessori (supporti, contenitori, ecc.) a contorno e compendio della schedina.

La scheda sta diventando un must tra i “makers”, specialmente coloro che utilizzano Arduino (un'altra piattaforma per il physical computing, ma con meno potenza di calcolo ) e apre nuovi orizzonti per tutto quello che riguarda il “web delle cose” (WoT, “web of things”) ovvero la possibilità di creare oggetti smart, collegati alla rete, che possono dialogare e scambiarsi informazioni tra loro; oggetti sociali che interagiscono con esseri umani o altri oggetti.

La scheda infatti è fornita di alcuni connettori che permettono di interfacciarla con altri dispositivi come display touch, fotocamere ed altro ancora, oltre ad una GPIO, una porta generica da utilizzare per piccole automazioni.

Il fenomeno Raspberry_PI è destinato a crescere ancora, con il rilascio di altre versioni della scheda, che non mancheranno di suscitare le curiosità degli appassionati e stimolare nuovi progetti e idee.

Luca Perencin | @No_CQRT


Your next PC might cost less than 30€

A three months waiting list, more than 500.000 pieces sold in less than one year. We're not talking about the last model of smartphone or tablet, but about a technological object of just a few millimeters, 85 x 52 to be exact, the format of a common business card.

We're talking about the Raspberri_PI, a mini SoC PC (system on a chip) based on just a few electronic components. The main chip is a Broadcom BCM2835, which contains an ARM11 700mhz processor, a graphic GPU and a 256Mb RAM. The rest of the board is equipped with the necessary interfaces to connect to the world, an ethernet board, two USB ports, an HDMI port, an audio and a RCA one, to use it on old TVs as well. Completing everything is an SD card slot, the same we find in digital photocameras where, in just a few minutes and a few easy steps, we can transfer a Linux distribution (obviously recompiled for ARM) and make our board operative. If you're wondering how much it costs... well, less than 30 euro (perhaps less than a cover for your newest smartphone).

The usage possibilities for a board like this are numerous: from a light and performant PC, usable as a client for the most common applications, to a a complete media center you can use to watch movies, photos or listen to music on your TV, but there are also people who have mounted Android, or Unix, or who put 64 of them in parallel to create a lowcost supercomputer.

But how was it possible to put together high technology, a low price and so much noise? In order to understand that we must go back to 2009, when the Raspberri Pi Foundation was opened, supported by the University of Cambridge (UK) and by Broadcom. The goal is clear immediately: the goal of the foundation is to promote the use of computers at a scientific level, especially at school, and “put the fun back into learning computing”. In order to achieve this goal several experts are enroled, including the famous ex videogames creator David Braben (also ex student at Cambridge University). 

Work was done for the whole year of 2010 and 2011, when the first prototypes were presented. In parallel with the development of the hardware, more and more testers are brought in, who have fun making prototypes and publishing the results of their experiments on blogs and newspapers, contributing a great deal to the hype, awaiting for the product. The orders are officially opened on February 29th 2012, and get "sold out" for the two suppliers who were handling the distribution, forcing them to limit orders to one piece per order, and delaying shipping times by 3 months.

The high and unexpected request has also sent the production and test systems in overload: it had been initially projected for 10.000 pieces, but the preorders already were over 100.000. At the moment the estimations are of 500.000 sold pieces, countless projects that have already been done and a rich market of accessories (supports, containers, ecc.) along with the board.

This board is becoming a must among "makers", especially those who use Arduino (another platform for physical computing, but with a lower calculation power) and opens new horizons for everything that regards the "web of things", the possibility of creating smart objects that are connected to the web, that can dialogue and exchange informations among them; social objects that interact with human beings and other objects.

The board is infact provided with some connectors that allow to interface it with devices such as touch displays, photocameras and much more, along with a GPIO, a generic port to use for small automations.

The Raspberri_PI phenomenon is destined to grow with the release of other versions of the board, that will most definitely excite the curiosity of aficionados and stimulate new projects and ideas.

Luca Perencin | @No_CQRT

giovedì 20 settembre 2012

La deriva virale dell’informazione online e il crepuscolo della qualità



Che succederebbe se a Internet accadesse ciò che successe con le tv commerciali negli anni ’80? Gossip, varietà leggero, scollature e scosciature, infotainment, pubblicità ficcata un po’ dappertutto, veline, velone, papere, misteri paranormali, maghi, tuttologi urlatori, ufo e casi umani, marchette e notizie addomesticate. 

Insomma tutto ciò che potesse far crescere l’audience era (ed è) perseguito con religiosa attenzione e fa niente che il livello culturale dell’offerta venisse sprofondato a livelli subatomici. Altri tempi, altri media, si direbbe, cosa c’entra Internet?

In uno spettacolare post di luglio scorso, Gianluca Neri aka Macchianera ha misurato gli ingombri occupati da contenuti “viral-oriented” sui principali mainstream informativi italiani (Repubblica e Corriere). Tutto un fiorire di video di gatti teneroni, cani cantanti, incidenti bizzarri, scollature provocanti (trending topic!), vacanze vip, flirt, amori finiti e corna inflitte. L’ingombro totale di questi contenuti? Occhio e croce un buon 30% dello spazio, pixel più, pixel meno.  

Tutto qui? Neanche per sogno. A Trieste, durante State of the Net sono circolati numeri preoccupanti sui referral, ovvero sulla fonte del traffico in arrivo sui grandi mainstream. Si parla di quote di quasi il 30% dei click che arrivano dai social (anche se ufficialmente se ne dichiara un più tranquillizzante 10%). Così, nelle redazioni online, circolano sempre più insistentemente concetti come “virale”, “condivisione”. Concetti che, ed è questo il nocciolo del problema, stanno entrando nel set di criteri utilizzati dai giornalisti per valutare cosa sia o meno “una notizia”.

Insomma, come dicevamo appunto a Trieste con Luca De Biase, fra i criteri di notiziabilità è ormai consolidata anche la “viralità potenziale” di un dato contenuto. Si tende, cioè a scegliere se dare spazio o meno a un dato fatto, sulla base della sua presunta capacità di diventare virale, ovvero di essere condiviso e commentato sui social e quindi di attirare traffico verso il sito del quotidiano.

Si pubblica così il video del gatto pianista e la galleria fotografica della starlette poco vestita e si sceglie con occhio nuovo anche quali notizie dare e come darle (per esempio spezzando l’articolo in decine di “sottocontenuti” facili da condividere e infarcendoli di video e immagini). Qualcuno nota l’assonanza fra questa pratica e la ricerca spasmodica dell’audience “facile” di stampo televisivo?

La domanda da porsi, a questo punto è: quel che è virale è anche di qualità, oppure la grande diffusione si ottiene sfruttando la pancia profonda dei lettori, le emozioni istintive, le pruderie, le morbosità da buco della serratura e la tendenza al disimpegno? Non che sia una cosa nuova e nata con Internet. Durante il festival del giornalismo, Mario Sechi, direttore de “Il Tempo”, da buon vecchio cronista ha detto chiaramente che per vendere i giornali (e l’informazione in genere) continuano a valere le vecchie regole ovvero le tre “S”, sesso, sangue e soldi.

Sia quello che sia credo che i giornalisti online e, perché no, anche i lettori, (cioè noi) si dovrebbero chiedere se questa deriva della Rete verso una dimensione da sterminato medium di infotainment a forte caratterizzazione commerciale sia o meno un problema, se sia un concetto sul quale interrogarsi. Sì, perché, in questo caso l’approfondimento, il contenuto più culturalmente ricco troverebbero ancora spazio? Senza parlare dell’utopia della Rete come veicolo e humus di un’intelligenza collettiva più ampia della somma dei suoi singoli addendi, che poi siamo noi. Un’utopia, appunto.

In vista della sempre maggiore integrazione del Web col mezzo televisivo, della migrazione sempre più massiccia sui dispositivi mobili e della morte annunciata della stampa cartacea, la qualità dell’informazione online è un concetto strategico perché tende a rappresentare la qualità dell’informazione tout-court. Il problema è che la rete è ormai governata da un ristretto oligopolio di grandissimi player (Google, Facebook, Microsoft, Apple). Player che hanno tutto l’interesse che la direzione non cambi. 

Daniele Chieffi | @danielechieffi


The viral drift of online information and the dusk of quality

What would happen if Internet went through the same things that the commercial TV of the 80s went through? Gossip, light variety shows, decolletees, infotainment, publicity shoved everywhere, dancers, big dancers, ducks, paranormal mysteries, magicians, screaming experts, ufos and human cases, hustlers and domesticated news. Everything that can make the audience grow was (and is) followed with religious attention and it doesn't really matter that the cultural level has gone underground. Different times, different media, one would say, what does the Internet have to do with it?

In a great post published last July, Gianluca Neri aka Macchianera has measured the space occupied by viral oriented content on the most important mainstream Italian newspapers (Repubblica and Corriere). A blooming of cuddly cats, singing dogs, strange accidents, provoking decolletees (trending topic!), VIP vacations, flirts, finished relationships and betrayals. The total space occupied by these contents? About 30%, little more, little less.

Is it all here? Not even close. At Trieste, during the State of the Net, some disturbing numbers about referrals have been published, which is the source of traffic coming in to great mainstreams. We're talking about 30% of clicks that come froms ocial networks (even though lately we've been hearing a much more tranquilizing 10%). So in online redactions, there are some concept that have become insistent, such as "viral", "sharing". Concept that, and this is the heart of the problem, are entering in the set of criteria used by journalists to define what is or is not "news".

So, as we said in Trieste with Luca De Biase, among the news criteria there is also the "potential virality" of a given content. There is the tendency to choose whether to give space or not to a given fact, based on its alleged capacity of becoming viral, which means to be shared and commented on social media and attracting traffic towards the newspaper's website.

So that's how you publish the video of the pianist cat and the photogallery of the naked star and choose with a new perspective what news to give and how to give them (for example breaking the article in dozens of subcontents that are easy to share, and filling them with videos and images). Does anyone notice the similarity between this habit and the desperate research of "easy" TV audience?

The question we should ask, at this point is: what is viral is also high quality, or the great distribution is obtained by exploiting the readers emotions, their instincts, the morbosity of the keyhole and the tendency to disengagement? Not that it's something new, or born with the Internet. During the Journalism Festival, Mario Sechi - director of Il Tempo - as a good old chronist has said that, in order to sell newspapers (and information in general), the three S rule is always valid: sex, blood and money.

Be what it may, I believe that online journalists and, why not, also readers (us) should ask themselves whether this drift of the web towards a dimension of infinite infotainment medium strongly characterized as commercial is or isn't a problem, whether it's a concept we should ask ourselves some questions about. Yes, because in this case, would the research, and the more culturally rich content find space? Without even thinking about the utopia of the Web as the medium and humus of a greater collective intelligence than the sum of the single components, who are us. A utopia, in fact.

In view of the more specific integration of the web with the TV, of the massive migration on mobile devices and the announced death of the paper print, the quality of online information is a strategic concept because it tends to represent the quality of information in general. The problem is that the web is now governed by a small oligopoly of huge players (Google, Facebook, Microsoft, Apple). Players that have all the interest in keeping things this way.

Daniele Chieffi | @danielechieffi

domenica 16 settembre 2012

Intervistato.com | Matteo Berlucchi @matteoberlucchi



Qualche tempo fa abbiamo avuto il piacere di intervistare Matteo Berlucchi, (attualmente ex) CEO del noto social network dedicato alla lettura, aNobii.com. Dall'editoria digitale fino ai nuovi modelli di business di aNobii, Matteo ci ha spiegato la sua visione riguardo al futuro della fruizione dei contenuti.


In primo luogo abbiamo chiesto quali siano i numeri della vendita di libri di carta da quando c'è il digitale, e in particolare se i numeri reggono ancora oppure si sta andando sempre più verso un panorama digitale di fruizione dei contenuti: i dati variano a seconda del paese in base a una serie di parametri, ma il più importante è senz'altro la presenza o meno di Amazon con la piattaforma Kindle su quel particolare mercato. Dove c'è Amazon con Kindle, spiega Matteo, i numeri vanno rapidamente alle stelle, anche perché Amazon ha una capacità di fuoco di marketing molto maggiore rispetto a qualsiasi altro competitor.

L'appetito per la lettura digitale c'è eccome, dunque, ma ci deve essere un ecosistema che consenta al lettore di trovare un catalogo di libri digitali sufficientemente fornito, la possibilità di comprare i libri in maniera user friendly, e infine avere delle piattaforme di lettura che consentano di leggere in modo piacevole e non intrusivo. [video]

Un'altra domanda che abbiamo fatto a Matteo riguarda le modifiche subite da aNobii nel corso del tempo, e le motivazioni che le hanno causate. Matteo distingue aNobii in due fasi: durante la prima fase la piattaforma si è evoluta in modo puramente crowdsourced. Il fondatore Greg Sung ha creato un sito in cui le nuove features venivano scelte dagli utenti; aNobii 2, oltre a questo aspetto che verrà senz'altro mantenuto e sviluppato, anche l'obiettivo di offrire una piattaforma di scoperta dei libri, anche per i lettori meno interessati a mantenere una libreria digitale. [video]

Abbiamo chiesto in quale modo un autore o un editore potrebbe sfruttare una piattaforma come aNobii: l'idea di base è che diventi una specie di caffè letterario, un punto di incontro tra editori, scrittori, pittori, e quindi tra contenuti, recensioni, libri e librerie. Così come un utente può creare una libreria, così anche un editore o un autore può farlo, mettendo così in evidenza i propri contenuti in modo nuovo. [video]

Un'altra domanda fatta a Matteo rigurda l'approccio che l'editoria dovrebbe avere verso il digitale: a suo avviso l'editoria deve posizionarsi in modo molto semplice, ovvero come intermediario tra lo scrittore e il lettore. Gli editori dovrebbero quindi pensare in questo modo, non vedersi come procacciatori di copyright da spremere per ottenere ritorni maggiori in termini economici. [video]

Abbiamo chiesto a Matteo se vede la lettura su ebook più adatta alle letture per piacere o per studio: secondo lui è perfetta per entrambi gli usi, e sicuramente sono perfetti per lo studio. Si evita infatti di portare libri fisici molto pesanti, e di spendere soldi su volumi che alla fine dei corso vanno al macero. [video]

Matteo ha spiegato anche quali saranno le evoluzioni nel mondo ebook, considerando anche la strategia di aNobii, e ci ha rivelato che sarà possibile acquistare i libri attraverso la piattaforma stessa: non creeranno un negozio, non ci sarà un negozio aNobii, né una classifica dei libri più venduti oppure offerte speciali, ma ci saranno i link ai negozi dove sarà possibile comprarli.

Il modello di business di aNobii dunque si basa sulla vendita di ebooks, anche perché Matteo non crede sia possibile implementare in questo caso un modello alla Spotify, con subscription mensili. Il modello economico intorno egli ebook è molto complicato e non si presta né all'affitto né alla sottoscrizione mensile. [video]

Infine abbiamo chiesto se ci sono prospettive per iniziative di promozione della lettura, sfruttando l'enorme community online della piattaforma aNobii: secondo Matteo sarebbe un'idea molto interessante ma difficile da strutturare a partire dal team stesso, che è molto ridotto. Quel che è possibile fare è dare la possibilità alle persone che hanno interesse a organizzare questo tipo di iniziative sulle piattaforma, e promuoverle nel modo più adeguato.

La cosa importante non è che gli utenti comprino libri da aNobii, ma che compri libri in più posti possibile: se tutti comprano i libri in un posto solo, infatti, si viene a creare un monopolio che non è salutare per nessuno. In Inghilterra, ad esempio, l'incredibile popolarità di Amazon sta contestualmente causando la chiusura di numerosi negozi di libri.

Invito tutti naturalmente a visionare l'intervista integrale, molto più ricca rispetto a questa mia breve sintesi!

Buona visione!

Maria Petrescu | @sednonsatiata


Intervistato.com | Matteo Berlucchi

Some time ago we had the pleasure of interviewing Matteo Berlucchi, (now former) CEO of the famous social network dedicated to reading, aNobii.com. From digital publishing to new business models, Matteo explained his vision of how content fruition will evolve.

First of all we asked what the numbers of the selling of paper books are since the digital came in, and in particular whether the numbers still work or we're going towards a digital scenario when it comes to content fruition: the data vary according to the country, based on a series of parametres, but the most important of them is whether or not Amazon is present with Kindle on that particular market. Where you have Amazon with Kindle, explained Matteo, the numbers skyrocket rapidly, because Amazon has a great capacity for marketing, more than most of its competitors.

The appetite for reading digital is definitely there, but there has to be an ecosystem that allows the reader to find a digital books catalogue that is sufficiently rich, the possibility to buy books in a user friendly fashion, and finally having the reading platforms that allow you to read in a pleasant and non intrusive way. [video]

Another question we asked Matteo was about the modifications that aNobii has undergone in time, and the motivations behind them. Matteo distinguishes aNobii in two phases: during the first phase the platform has evolved in apurely crowdsourced fashion. The founder, Greg Sung, has created a website in which the new features were chosen by users; aNobii 2, apart from this aspect that will definitely be maintained and developed, also has the goal of offering a book discovery platform, for those readers who aren't that interested in keeping a digital library. [video]

We asked in what way an author or an editor might take advantage of a platform such as aNobii: the basic idea is that it becomes a literary cafè, a meeting point between editors, writers, painters, contents, reviews, books and libraries. The same way a user can create a library, also an editor or author can do it, putting the contents on display in a whole new way. [video]

Another question we asked Matteo was about the approch editors should have towards digital: he believes publishing should stay very simply as an intermediary between writer and reader. The editors should think this way, not see themselves as copyright hunters, that they can juice in order to get more revenue. [video]

We asked Matteo whether he sees reading on ebooks as more suitable for leisure reads or study reads: he believes it's perfect for both, and surely fantastic for study. You avoid carrying heavy books around, and spending a lot of money on paper that at the end of classes ends up to get macerated. [video]

Matteo has explained what the evolutions of the ebook world will be, considering aNobii's strategy, and has told us that it will be possible to buy books through the aNobii platform: they won't create a tore, there will be no aNobii book store, nor a top 10 best selling list, nor special offers, but there will be links to the stores where you can buy them.

The aNobii business model is based on selling ebooks, also because Matteo doesn't believe it is possible to implement a Spotify model in this case, with monthly fees. The economical model around ebooks is very complicated and doesn't mix well with renting or monthly subscriptions. [video]

Finally we asked whether there are perspectives for initiatives of reading promotion, exploiting the giant online community of the aNobii platform: Matteo believes it would be a great idea, but difficult to put together by the team, which is really small. What it is possible to do is giving the possibility to people who are interested in organizing these types of initiatives on the platform, and promoting them in the most adequate way.

The important thing isn't that people buy books from aNobii, but that they buy books from as many places as possible: if everyone buys their books in one place, a monopoly is created that isn't good for anyone. In England, for example, the incredible popularity of Amazon is also making numerous bookshops close the doors.

I invite everyone to view the full interview, much richer than my brief synthesis!

Enjoy!

Maria Petrescu | @sednonsatiata

▼ Leggi i migliori della settimana

2