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sabato 17 novembre 2012
#Spioncino: Il Gioco del Tempo
(il carillon di Playtime di J.Tati)
Un motivo musicale da circo parte, ma è lontano. Nel senso che solo alcune scene dopo raggiungerà il suo adempimento poetico. Prima Tati vuole che la incameriamo, questa musichetta. Che ce ne riempiamo i polmoni. Che ne gustiamo, magari, quel sapore che porta di una giornata trascorsa e dopo la quale malgrado tutto ne restiamo indenni.
Quando siamo sul punto di canticchiare quel motivo, evasi, apprezzandone il suo essere abbrivio per un luogo inaccessibile, che con ogni probabilità ci imporrà di arrestarci sulla sua soglia, ecco che vediamo una piazza e tutte le macchine che quasi attaccate l’una all’altra si muovono come mimi, o morti viventi, e allora quella musica da luna park, così sospettosa di inconsistenza e irriferibilità, è la musica inevitabile, logica, per l’immagine che ora vediamo, che è una giostra quieta, un sentore di compimento plastico.
E la colonna sonora ottiene un riscatto. Il film è inondato di rumori sproporzionati, esorbitanti la fonte da cui provengono, fisicamente irresponsabili, quasi la contropartita di un mondo tirato a lucido, quello descritto nella prima parte, su cui l’uomo singolo non deve e non può lasciare impronta o se la lascia l’impronta dura una vita breve, è subito orma(i) già trascorsa (la pelle dei divanetti che si risana con un fischio dopo che ci si è seduti).
Questa volta però la colonna sonora, dopo un tragitto, si appropria il suo posto, mette a fuoco la scena a cui era chiamata a dare risposta, fa il suo dovere di colonna portante della scena, di sonora puntualità metaforica. Sarà perché ci troviamo in una piazza, finalmente immuni dalla perizia e mestizia di celle lustre e teche di vetro, dai balli ebbri più ebbri che balli. Vorrei che il tempo fosse una piazza, parola di Borges.
Questa è una piazza da luna park, una piazza elettrica, ma accontentiamoci, è pur sempre una piazza. Dove il tempo può riposarsi. E forse, con il tempo a riposo, potranno cominciare a esistere davvero i luoghi. La Parigi di Tati è in realtà Tativille, non molto dissimile dalla città con la scenografia rasa al suolo di L.Von Trier, una città senza forme, disincarnata e ridotta a una mappa ma senza la fantasia della mappa (in una scena di Playtime un personaggio sta indicando servendosi di una mappa un punto a un altro personaggio, poi distratto da un ennesimo tonfo o incidente nel convulso ruotare e rotolare delle cose, si lascia sfuggire la mappa che aveva appoggiato a una colonna di marmo; il personaggio che chiedeva l’informazione, ubriaco, scruterà la colonna, che ha delle macchie scure con contorni sinuosi, come se fosse ancora la mappa).
Parigi, quella vera (ma Parigi esiste?), appare solo nel riflesso di uno degli innumeri vetri wellesiani che hanno il compito di detergere il mondo e di sovrapporre i luoghi infrangendo la loro individualità. La Tour Eiffel e l’Arco di trionfo si limitano al ruolo di comparse in una Parigi di provincia che millanta di essere Parigi e riesce nell’impostura denunciando un rischio per il destino del mondo assomigliare a un teatro di posa.
Ma poi c’è un addio tra un uomo e una donna, silenzioso, non architettato, goffo, ma umano e riuscito. La donna sale nel pullman ma lui fa in tempo a recapitarle un dono (non riesce a uscire dal negozio ma chiede a un passante di fare da postino). E’ un foulard, che lei già affacciata dai finestrini del pullman indossa rendendosi più antica e bella (i costumi!), e sopraelevata sorride.
Poco prima un operaio pulisce i vetri, li sposta e nel riflesso il pullman si piega e sale (splendidamente arcuato): i passeggeri del pullman emettono i suoni di stupore come se fossero davvero sollevati, come in una giostra o in un sogno (o in un mondo più divertente). Poco dopo, il pullman è già in viaggio: i pali della luce, magri e alti e duplici e floreali, si accendono,ma a poco a poco, a uno a uno, man mano che il pullman li attraversa (la fotografia del film che mira bene, che illumina quando deve).
Il tempo si muove in punta di piedi, gioca a nascondino.
Francesco Romeo | #spioncino
The Game of Time
A circus music starts playing, but it's far away. Meaning that only a few scenes later it will reach it poetic peak. First Tati wants us to take that music in. That we fill our lungs with it. That we taste it, maybe, that taste that feels like a past day, after which, in spite of everything, we're still alive.
Qhen we're on the point of singing that motive, evaded, appreciating its being in a non accessible place, which with every probability will force us to remain on the edge, we see a square and all the cars that almost attached one to another move like living dead, and then that luna park music, so suspicious of inconsistency and impossibility to refer, it's the inevitable, logical music for the image we see, which is a quiet fair, a feeling of plastic accomplishment.
And the soundtrack obtains its revenge. The movie is flooded with disproportionate noises, which enhance their source, phisically irresponsible, almost the counterparty of a world that is so perfect, the one described in the first part, on which the individual must not and cannot leave a print, or if he leaves it, then it doesn't last long, it's already gone (the leather of the couches that goes back to how it was after you sit down on it).
This time, however, the soundtrack, after a short trip, regains its place, focuses the scene that it was called to answer, does its job as a portant pillar of the scene, of musical metaphorical punctuality. Maybe because we're ina square, finally immune from the precise sadness of glistening cells and glass boxes, from the drunken balls more drunk than ever. I wish that time was a square, said Borges.
This is a luna park square, an electric square, but let it be enough, it's a square after all. Where time can rest. And maybe, with time resting, places will be able to exist again. Tati's Paris is in fact Tativille, not very different from the city with a scenography that was completely destroyed of L.Von Trier, a shapeless city, without flesh and reduced to a map, but without the fantasy of the map (in one scene of Playtime a character is indicating a spot to another character using a map, then distracted by another noise or accident in the convulse spinning of things, lets the map slip away; the character asking for information, drunk, will look at the pillar, which has some stains, as if it were a map).
Parigi, the real one (but does Paris exist?), appears only in the reflex of one of the infinie wellesian windows that have the task to clean the world and overpose places by breaking their individuality. The Eiffel Tour and the Arc du Triumph limit themselves to the role of actors in a provincial Paris that pretends it is Paris and manages in the imposture by signaling a risk for the destiny of the world to become similar to a theatre.
But then there's a goodbye between a man and a woman, silent, not architected, embarassed, but human and well done. The woman gets on the bus and he barely manages to give her a gift (he doesn't manage to get out of the store but asks a man passing by to bring it to her). It's a foulard, which she puts on making herself more antique and beautiful (costumes!), and smiles.
Just earlier a worker cleans the glasses, moves them and in the reflexion the bus bends and climbs (splendidly arched): the passengers of the bus sound astonished as if they were truly being lifted, like in a fair or a dream (or a funnier world). Just later, the bus is already on the road: the light posts, thin and tall and double and floreal, turn on, but one after the other, as the bus passes (the photography of the movie that aims well, that illuminates when it should).
Time moves slowly, playing hide and seek.
Francesco Romeo | #spioncino
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