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domenica 9 dicembre 2012
Quando la fotografia fa male alla notizia
Un fatto di cronaca nera come tanti altri, in piena notte, in una grande metropoli. Un cittadino documenta la scena scattando fotografie dalla finestra della propria abitazione, che poi manda a una testata online.
La testata sceglie di pubblicarle, senza indicare il nome del fotografo in quanto questo desidera mantenere anonima la propria identità (peraltro ininfluente ai fini della comprensione dell’accaduto).
Leggo questo articolo e ne rimango incuriosito perché conosco la zona. Incrocio quindi le foto con Google Map e ne proietto la traiettoria sugli edifici circostanti, individuando in men che non si dica la finestra da cui sono state scattate le foto. Subito penso che, come l'ho fatto io, potrebbero farlo anche i responsabili del fattaccio.
Quello che mi chiedo è quanto in realtà siano stati consapevoli delle possibili conseguenze sia quel cittadino che la redazione della testata. Il primo - forse coraggiosamente consapevole, forse accecato dalla ricerca del proprio quarto d’ora di celebrità - non deve necessariamente possedere competenze particolari se non quella di essere un sensore territoriale al servizio della comunità.
La testata, invece, può non conoscere le possibilità di triangolazione delle informazioni attraverso i media on-line e i social media?
La scelta editoriale di mostrare le immagini di una persona lasciata inanime sul selciato può offrire valore aggiunto alla notizia oltre a sfamare la curiosità morbosa di parte dei lettori? Deve tenere conto anche del rischio che potrebbero correre le fonti? Deve anche informare l’autore delle foto di cosa rischia, anche se lui è convinto che sia sufficiente non pubblicarne il nome?
E’ lecito pensare che, oltre alle foto pubblicate, ve ne fossero altre che identificano chiaramente i responsabili e che siano state fornite anche alla polizia? E se gli aggressori fossero più maldestri di me nell’identificazione del “fotografo casuale”, prendendosela magari col suo vicino di casa?
A giudicare da quanto riportato nell’articolo, la redazione intendeva mantenere l’anonimato delle proprie fonti ma, evidentemente, ha commesso un grave errore.
Disclaimer: non ho inserito intenzionalmente alcun riferimento a luoghi e nomi.
Ora cambiamo area geografica e sbarchiamo dall’altra parte dell’Atlantico, a New York. L’altro giorno, il NY Post ha messo in prima pagina la foto di un uomo spinto intenzionalmente sui binari della metropolitana di New York proprio mentre transita il convoglio. La fotografia è opera di un fotografo freelance presente sulla banchina in quel momento: complessivamente sono 49 le fotografie che ha scattato col flash, nel tentativo di segnalare al conducente del convoglio la situazione di pericolo.
La ricostruzione descrive una scena in cui anche altre persone in attesa sulla banchina tentano di attirare l’attenzione del conducente, sbracciandosi: nessuno invece pare che tenti materialmente di estrarre il malcapitato dalla trappola, anche se probabilmente il suo destino è ormai segnato.
L’impatto è tremendo, 22 secondi dopo; nonostante l’evidenza che a quel punto non rimane più nulla da fare, una dottoressa presente sulla banchina tenta ugualmente di rianimare la vittima. Più tardi commenterà: “It was apparent there was not much I could do -- but you can’t not do something, you have to try”.
La scelta editoriale del NY Post ha diviso l’opinione pubblica: che valore aggiunto ha offerto la fotografia pubblicata? Quello di mostrare la morte in diretta e di provocare un effetto shock tra i lettori? Se fosse capitato a un nostro parente, noi come avremmo reagito di fronte alla pubblicazione di queste foto, riprese peraltro su blog, Facebook e Twitter?
Qual è oggi il confine tra etica, responsabilità e opportunità editoriale?
Roberto Favini | @postoditacco
When photography is bad for the news
A crime news like many others, in the middle of the night, in a big city. A citizen documents the scene by taking some pictures from the window of his home, which he then sends to an online newspaper.
The newspaper decides to publish them, without indicating the name of the photographer, since he wants to remain anonymous (besides, his identity is absolutely not relevant in order to understand what happened). I read this article and I'm quite curious, because I know the area. So I analyze the pictures and cross-check them with Google Maps, projecting the trajectory on the surrounding buildings, and in a few minutes I identify the window from which the pictures were taken. Immediately I think that, just like I did, the ones responsible for the crime might do it as well.
What I do ask myself is how much awareness of the possible consequences there has been, both in that citizen, and at the online newspaper. The first, maybe bravely aware, maybe blinded by the search of his 15 minutes of fame, mustn't necessarily have any particular competences, if not being a territorial sensor at the service of his community. But can the online newspaper not know about the possibilities of triangulation of information through online media and social media?
The editorial choice of showing images of a person left unconscious on the ground can offer added value to the news, beyond feeding the morbid curiosity of part of the readers? Must it take into account the risk that the sources might be taking? Must they inform the author of the pictures about what he or she is risking, even if convinced that it is sufficient to not publish the name?
Is it legitimate to think that, beyond the photos that were published, there were others that clearly identify the responsibles and that were given to the police? And what if the criminals were not as capable as I was in identifying the casual photographer, maybe accusing his neighbor? Judging from what is in the article, the newspaper wanted to maintain its sources anonymous, but evidently it has committed a big mistake.
Disclaimer: I intentionally didn't include any reference to places or names.
Now let's change geographic area and let's go to the other side of the Atlantic, in New York. A few days ago, the NY Post has put on front page the picture of a man intentionally pushed on the subway tracks in NY while a train is passing. The photo was taken by a freelance photographer present at that moment: he took 49 photographs with the flash, hoping to signal the driver of the train the dangerous situation.
The reconstruction describes a scene in which even other people waiting tried to attract the driver's attention, but nobody seemed to materially help the unfortunate man from the deadly trap, even if his destiny seemed to be signed. The impact is awful, 22 seconds later; in spite of the evidence that there's nothing left to do, a doctor present on the scene tries CPR on the victim. Later she will say:
“It was apparent there was not much I could do -- but you can’t not do something, you have to try”.
The editorial choice of the NY Post has divided the public opinion: what added value has the published photograph offered? Showing death in its inevitability and causing a shock effect among the readers? What if it happened to one of our own relatives, how would we have reacted at the publication of these pictures, which were by the way shared on blogs, Facebook and Twitter?
What is the line between ethics, responsibility and editorial opportunity?
Roberto Favini | @postoditacco
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