▼ Il tweet del giorno
Berlusconi: "Presidente della Convenzione? Solo una battuta". Come quando prometteva un milione di posti di lavoro ed il rimborso dell'IMU.
— Il Triste Mietitore (@TristeMietitore) 08 maggio 2013
domenica 2 giugno 2013
#Storiedeldisonore: l’arresto di #Riina, le stragi del 1993 e la partita della #mafia sul carcere duro
E se di “trattativa“ si sente parlare, non ci si può dimenticare di quel che accadde nel 1993, una anno su cui ancora oggi si chiudono processi e si emettono sentenze. L’anno si apre con l’arresto del ‘capo dei capi’: Totò Riina.
E’ il 13 gennaio, siamo in via Bernini 54, ed è appena partita l’‘operazione Belva’ del nucleo del Crimor guidato da Sergio de Caprio, meglio conosciuto come Capitano Ultimo. Lui e la sua squadra composta da Arciere, Vichingo, Pirata, Oscar, Omar e Ombra hanno individuato la villa di Riina.
Gli uomini di Ultimo per due giorni girano nei quartieri de l’Uditore, della Noce e di Passo di Rigano, con ‘la balena’, cioè il furgone schermato da cui si fanno riprese e si ascoltano le intercettazioni. Il 14 gennaio individuano il cancello da cui esce Ninetta Bagarella, la moglie di Totò Riina. Alle 8.55 del giorno successivo Giuseppe Coldesina, nome in codice Ombra, comunica via radio con Ultimo: «Attenzione, è uscito il nostro amico, il nostro amico Sbirulino, è uscito».
L’amico “Sbirulino” è in realtà Salvatore Biondino, autista di Totò Riina. A bordo della Citroën ZX con Sbirulino c’è proprio lui, “Totò ‘u curtu”, la “belva senza cuore” arrivata ai vertici di Cosa Nostra e latitante da 23 anni. A riconoscerlo è stato Balduccio Di Maggio ex autista di Riina, stipato con l’attrezzatura e il resto della squadra del Crimor nel retro del Ford Transit Blu che porta la scritta “Gambino Impianti”. É Di Maggio ad aver segnalato dalla stazione dei Carabinieri di Novara, dove è stato arrestato l’8 gennaio 1993 per un omicidio a Borgomanero, la probabile ubicazione del ‘covo’ (in realtà una villa con tanto di palme e non distante dal centro di Palermo). Quindici minuti e un chilometro più tardi da via Bernini a Palermo avviene l’arresto del capo dei capi il quale un’ora dopo si ritrova in caserma fotografato sotto la foto del generale Dalla Chiesa.
Di Maggio non è uno qualunque, è infatti quel pentito “eccellente” a fortune alterne che descrisse la scena del famigerato bacio di Riina a Giulio Andreotti. Basta una confidenza di Balduccio di Maggio in una caserma dei Carabinieri di Novara per stanare Riina? Ovviamente no. Si aggiungono così le indagini degli uomini del Ros guidati da Mario Mori e il contesto della famigerata “trattativa” tra Stato e mafia: Riina sarebbe la contropartita offerta da Provenzano per far cessare le stragi e contestualmente salvare Cosa Nostra dalla guerra con lo Stato intavolata dopo gli eccidi di Capaci, via d’Amelio, Roma, Firenze e Milano tra il 1992 e il 1993. Sarebbe stato il capo dei capi primo estensore del cosiddetto ‘papello’, cioè l’elenco delle richieste di Cosa Nostra allo Stato per mettere fine alle stragi in continente”. Senza poi dimenticare la dibattuta e complessa vicenda della mancata perquisizione del covo di Totò ‘u curtu che diede avvio a una sterminata letteratura giornalistica, ancora oggi sulla cresta dell’onda.
Da Giuliano in poi sulle operazioni più importanti dell’antimafia siciliana non sono mai mancati sospetti e veleni, e la vicenda dell’arresto di Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio di venti anni fa non ha fatto di certo eccezione. Anche perché a giovare più di tutti di quell’arresto è stato quel Bernardo Provenzano che è stato nei tredici anni successivi uomo di vertice di Cosa Nostra, cambiando radicalmente il volto dell’organizzazione criminale siciliana. Una Cosa Nostra che in questi venti anni non è stata di certo sconfitta, e chi lo sostiene, o lo fa per ignoranza o lo fa in completa malafede sminuendo un problema ancora forte e attuale soprattutto in Sicilia, nonostante qualche difficoltà ‘organizzativa’ in più rispetto al passato.
Nei mesi successivi, e precisamente tra maggio e luglio del 1993 arrivano le stragi di Roma, Firenze e Milano, che provocheranno altre vittime, feriti e danni anche al patrimonio artistico. Proprio in quell’anno si gioca, per la magistratura palermitana, la partita sul 41 bis, ovvero il regime del carcere duro, tornato sulla scena dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio. Il ministro della giustizia Giovanni Conso, subentrato a Claudio Martelli, dimissionario a causa dello scandalo per il ‘conto protezione’, non rinnova il carcere duro per oltre 300 detenuti. Sono pochi gli esponenti di spicco di Cosa Nostra presenti in quella lista, ma andava lanciato un “segnale di distensione”: così definiva la non proroga dei 300 41-bis il direttore del DAP Capriotti in una nota del giugno 1993.
Il 10 agosto del 1993 la DIA redige una nota riservata che invia al ministro Mancino: «Gli attentati recenti potrebbero presumibilmente riferirisi alla ricerca di un pactum sceleris attraverso l’elaborazione di un progetto che tenda ad intimidire e distogliere l’attenzione dello Stato per assicurare forme di impunità». La nota prosegue e parla proprio di 41-bis «l’eventuale revoca , anche solo parziale, dei decreti che dispongono l’applicazione dell’articolo 41-bis potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato intimidito dalla stagione delle bombe».
Una nota comunque da leggere nella sua interezza in grado di aprire uno scenario illuminante per lo stato dell’arte delle indagini dell’epoca e una probabile saldatura, il pactum sceleris, tra poteri criminali presenti sul territorio nazionale.
Conso dice di non aver prorogato i provvedimenti in perfetta solitudine e di non ricordare la nota firmata da Capriotti. Fatto sta che i provvedimenti rientrano e da gennaio 1994 si conclude la strategia stragista di Cosa Nostra con il fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma ai danni dei Carabinieri. Successivamente, sempre nel gennaio ’94, vengono arrestati anche i fratelli Graviano, fautori della linea stragista dopo l’arresto di Riina. Arresti che segneranno la fine del sangue in quel terribile biennio, e l’inizio del regno di Bernardo Provenzano. [To be continued...]
Luca Rinaldi | @lucarinaldi
Stories of dishonor: the arrest of Riina, the massacres of 1993 and the mafia party on the hard prison
And if we must talk about a "treaty", we can't forget what happened in 1993, an year on which trials are still being celebrated and verdicts still being decided. The year was oppened with the arrest of the "boss of bosses": Totò Riina. It's January the 13th, we're in Bernini Street 54, and the "Belva operation" of the Crimor nucleus has just started under the leadership of Sergio de Caprio, better known as "The Last Captain". He and his team composed by Archer, Viking, Pirate, Oscar, Omar and Shadow have found Riina's villa.
The Last Captain's men scout the neighborhoods of the Uditore, Noce and Passo di Rrigano for two days with the "whale", the van used to record videos and listen to wirings. On January 14th they identify the door from which Ninetta Bagarella comes out, the wife of Totò Rriina. At 8.55 of the following day, Giuseppe Coldesina, codename "Shadow", communicates on radio with the Last: "Attention, our friend is out, our Sbirulino friend, he's out."
The "Sbirulino" friend is actually Salvatore Biondino, the driver of Totò Riina. On board of the Citroën ZX with Sbirulino there's him, "Totò 'u curtu", the "heartless beast", arrived at the top of Cosa Nostra and a 23 year long fugitive. The one who recognized him was Balduccio Di Maggio, former driver of Riina, stuffed with the equipment and the rest of the Crimor team in the back of the Ford Transit with the "Gambino Impianti" sign on it. It was Di Maggio who signaled, at the Carabinieri station of Nnovara, where he was arrested on January the 8th for a homicide at Borgomanero, the probable position of the "den" (in reality a villa with palm trees not very far away from the center of Palermo). Fifteen minutes and one chilometer later from via Bernini in Palermo, the arrest of the boss of bosses, photographed one hour later under the picture of general Dalla Chiesa.
Di Maggio isn't just any criminal, he is the "excellent" collaborator of justice who described the scene of the famous kiss between Riina and Giulio Andreotti. Is one confidence of Balduccio di Maggio in a Carabinieri station sufficient to get Riina out of his hiding place? Obviously not. So the inquiries of the Ros men are added up, guided by Mmario Mori and the contezt of the "treaty" between State and mafia: Riina would be the counterparty offered by Provenzano in order to stop the massacres and at the same time save Cosa Nostra from the war with the State started after the Capaci, via d'Amelio, Rome, Florence and Milan massacres between 1992 and 1993. Apparently it was the boss of bosses who gave out the first "papello", the list of requests of Cosa Nostra from the State in order to stop the massacres in the country". Without forgetting the debated and complex matter of the missed perquisition of the den of Totò 'u curtu, which gave birth to an infinite journalistical literature, still quite popular even today.
From Giuliano onward, on the most important operations of the Sicilian antimafia, there has never been a lack of suspicions and poisons, and the matter of the arrest of Totò Riina, happened on January the 15th of 20 years ago was certainly not an exception. Also because the one who benefited most from that arrest was Bernardo Provenzano, who was the top man of Cosa Nostra in the following 13 years, changing radically the face of the Sicilian criminal organization. A Cosa Nostra that in these twenty years has definitely not been defeated. Those who said it has, do it either out of ignorance or lying, diminishing a problem that is strong and current especially in Sicily, in spite of a few more "organization" difficulties than in the past.
In the following months, and more precisely between May and July 1993, the massacres of Rome, Florence and Milan happened, causing more victims, injuries and damages to the artistical patrimony as well. In that year the game of the 41 bis is played, the hard prison regime, back on the table after the Capaci and via D'Amelio massacres. The minister of Justice Giovanni Conso, who came into the charge after Claudio Martelli, who resigned because of the scandal for the "protection count", doesn't rennovate the hard prison for more than 300 prisoners. There are only a few important exponents of Cosa Nostra in that list, but a "distention signal" had to be launched: that was what it was called by the DAP director Capriotti in anote date June 1993.
On August the 10th 1993, the DIA writes a reserved note sent to minister Mancino: "The recent attacks might presumable be referred to the search of a pactum sceleris through the elaboration of a project that tends to intimidate and distract the State's attention to insure forms of impunity". The note goes on and talks about the 41 bis and the "the possible revocation, even just partial, of the decrees that dispose the application of the 41 bis, might represent the first concrete defeat of a State intimidated by the bombing season."
A note that should still be read in its entirety, capable of opening an illuminating scenario for the state of the art of inquiries at that time and a probable union, a pactum sceleris, between criminal powers present on the national territory.
Conso said he did not delay the measures in perfect solitude, and that he did not remember the note signed by Capriotti. The point is that the measures are actuated and from January 1994 the massacre strategy of Cosa Nostra is concluded with the failed attack at the Olympic Stadium in Rome at the expense of the Carabinieri. Afterwards, in January '94, the Graviano brothers are also arrested, the actuators of the massacre line after Riina's arrest. Arrests that will mark the end of the blood of that terrible two years period, and the beginning of the reign of Bernardo Provenzano.
Luca Rinaldi | @lucarinaldi
Etichette:
bernardo provenzano
,
claudio martelli
,
giovanni conso
,
intervistato
,
jacopo paoletti
,
luca rinaldi
,
mafia
,
maria petrescu
,
storiedeldisonore
,
totò riina
lunedì 27 maggio 2013
Giornalismo, #socialmedia e barbarie
La notte del 27 maggio nelle campagne di Corigliano Calabro Fabiana Luzzi è stata uccisa dal suo fidanzato, in maniera atroce. Non voglio indugiare nei particolari, non è mio compito, non faccio il giornalista. Però invece chi fa questa mestiere, soprattutto se lavora in una testata regionale, ieri è stato attaccato perché avrebbe "oltraggiato la vittima" e difeso l'assassino.
C'è un ragazzo di 17 anni, reo confesso, di cui sono state messe solo le iniziali, perché deve essere tutelato come prevede la legge e anche la deontologia professionale, ho anche linkato la Carta di Treviso, documento che sancisce le norme sulla riservatezza dei minori. Di lei sono state messe anche le foto, anche dai grandi giornali nazionali, solo che con ritardo, ma non per scelta etica. Sta di fatto che parlare male dei giornalisti è uno sport nazionale molto in voga, soprattutto perché porta molti Like e RT, lo sappiamo. C'è una fortissima confusione fra cronaca, che è mestiere, complesso, difficile, e commento, cosa diversa e i social hanno dato una forte illusione, che il giornalismo, sia un mestiere facile, d'altronde tutti lo confondono con il blogging. Cose diverse.
La cosa però è peggiorata, perché qualcuno, di cui non faccio il nome, ha realizzato un post in cui accusava sempre lo stesso quotidiano regionale di aver messo la foto dell'assassino, quasi per sbaglio. Gli è stato spiegato che non era così, che si trattava di un'immagine in una photogallery del luogo del ritrovamento, basta leggere la didascalia. Invece si continuava a insinuare che si poteva essere spinti all'errore nella lettura, il ragazzo comunque pare fosse un amico della vittima, chiamato per il riconoscimento. Una cosa: se davvero un giornale avesse avuto la foto dell'assassino probabilmente l'avrebbe pubblicata, pixellata, ma l'avrebbe messa.
C'è un errore di fondo sul giornalismo, il credere che si tratti di una missione salvifica e civilizzatrice, molto oltre il reale mestiere. Forse sarebbe il caso di aprire le redazione al pubblico per qualche giorno e far capire davvero come si lavora. Pensavo fosse finita, ma stamane sul blog di uno dei grandi giornali trovo una lettera di una donna calabrese, direttrice delle relazione esterne per una multinazionale, che parla della sua regione come se stessimo parlando di non so che posto, neanche l'Iran. Ora, io, per questioni personali, amicizie e conoscenze, ho molti legami e conoscenze con la Calabria, forse esisteranno situazioni del genere, io non ne conosco, e allora perché quella lettera diventa un'analisi antropologica? L'avesse scritta una studentessa dell'Unical o un'impiegata sarebbe stata cosa diversa,non l'avrebbero pubblicata, perché i social vogliono la sociologia e la psicologia facile, che rafforza i luoghi comuni. E' molto più facile!
Di banalità, anzi di barbare banalità, ne ho lette un'enormità ieri. L'unica richiesta era vendetta. Si chiedeva un rituale violento, un'immersione nel sangue stile Apocalypse Now, perché l'assassino, siccome minorenne, non sarebbe andato in galera. Era agghiacciante vedere persone di ogni classe sociale e professione, pronte alla vendetta nel nome di "se fosse successo a mia figlia o a mia nipote ecc". Signori, se fosse successo ad un vostro caro voi non stareste sui social a straparlare e a giurare sangue! Almeno me lo auguro. Però poi siamo pronti a criticare gli americani che fanno le feste per le esecuzioni, a criticare i musulmani che obbligano il burqa alle donne, ci battiamo il petto, firmiamo petizioni online, poi esplodiamo di rabbia negli status dei social. Un'ipocrisia di fondo si agita nel nostro paese, perché siamo anche quelli che andiamo a litigare con gli insegnanti che hanno dato un'insufficienza ai nostri ragazzi e quelli che scendono dall'auto per un diverbio pronti alle botte. Quel ragazzo è figlio nostro, figlio della rabbia delle nostre risposte e questo non è buonismo, è il fatto che se spegniamo il cervello e accendiamo la vendetta allora autorizziamo il massacro. Perché il giorno dopo arriveranno i parenti del giustiziato e faranno fuori noi e così ad libitum!
Gli unici che davvero potevano avere diritto all'odio in questa situazione erano i genitori di Fabiana. Stamattina la madre ha parlato con l'Arcivescovo di Rossano-Cariati, che si era recato a farle visita e ha dichiarato: "Voglio giustizia per mia figlia". Giustizia. Niente di più, niente di meno. Poi, riferendosi, al ragazzo, il reo-confesso, che deve subire un processo, ha detto: "Anche lui è una vittima". Serve altro?
Altro c'è. A Corigliano, il paese dove è avvenuto l'omicidio, c'è stato un corteo per ricordare Fabiana. In testa c'era uno strisione: "La tua storia meritava più ascolto".
Simone Corami | @psymonic
Journalism, social media and barbary
During the night of May 27th, in the countryside of Corigliano Calabro, Fabiana Luzzi was murdered by her boyfriend in an atrocious way. I don't want to go into the details, it's not my job, I'm not a journalist. But those who actually do this job, especially if they're working in a regional newspaper, yesterday was attacked because they "offended the victim" and defended the killer.
There's a 17 year old boy who confessed, whose only initials were published, because he must be protected, as the law and professional code say, I've even linked the Treviso Bill, the document that disciplines privacy norms for minors. Of the girl even pictures have been published, even by big national newspapers, only a bit late - not because of an ethical choice. Point is, speaking ill of journalists is a national sport that is quite popoular, especially because it brings a lot of likes and a lot of retweets, as we know. There's a great confusion between reporting, which is a complex job, and commentary, a completely different thing. Social media have given the strong illusion that journalism is an easy job, and everyone confuses it with blogging. But no: they are two very different things.
What would happen if Internet went through the same things that the commercial TV of the 80s went through? Gossip, light variety shows, decolletees, infotainment, publicity shoved everywhere, dancers, big dancers, ducks, paranormal mysteries, magicians, screaming experts, ufos and human cases, hustlers and domesticated news. Everything that can make the audience grow was (and is) followed with religious attention and it doesn't really matter that the cultural level has gone underground. Different times, different media, one would say, what does the Internet have to do with it?
The space occupied by viral oriented content on the most important mainstream Italian newspapers (Repubblica and Corriere). A blooming of cuddly cats, singing dogs, strange accidents, provoking decolletees (trending topic!), VIP vacations, flirts, finished relationships and betrayals. The total space occupied by these contents?
Is it all here? Not even close. Some disturbing numbers about referrals have been published, which is the source of traffic coming in to great mainstreams. We're talking about 30% of clicks that come froms ocial networks (even though lately we've been hearing a much more tranquilizing 10%). So in online redactions, there are some concept that have become insistent, such as "viral", "sharing". Concept that, and this is the heart of the problem, are entering in the set of criteria used by journalists to define what is or is not "news".
Aamong the news criteria there is also the "potential virality" of a given content. There is the tendency to choose whether to give space or not to a given fact, based on its alleged capacity of becoming viral, which means to be shared and commented on social media and attracting traffic towards the newspaper's website.
So that's how you publish the video of the pianist cat and the photogallery of the naked star and choose with a new perspective what news to give and how to give them (for example breaking the article in dozens of subcontents that are easy to share, and filling them with videos and images). Does anyone notice the similarity between this habit and the desperate research of "easy" TV audience?
The question we should ask, at this point is: what is viral is also high quality, or the great distribution is obtained by exploiting the readers emotions, their instincts, the morbosity of the keyhole and the tendency to disengagement? Be what it may, I believe that online journalists and, why not, also readers (us) should ask themselves whether this drift of the web towards a dimension of infinite infotainment medium strongly characterized as commercial is or isn't a problem, whether it's a concept we should ask ourselves some questions about. Yes, because in this case, would the research, and the more culturally rich content find space? Without even thinking about the utopia of the Web as the medium and humus of a greater collective intelligence than the sum of the single components, who are us. A utopia, in fact.
In view of the more specific integration of the web with the TV, of the massive migration on mobile devices and the announced death of the paper print, the quality of online information is a strategic concept because it tends to represent the quality of information in general. The problem is that the web is now governed by a small oligopoly of huge players (Google, Facebook, Microsoft, Apple). Players that have all the interest in keeping things this way.
Simone Corami | @psymonic
domenica 26 maggio 2013
I miracoli di @DonAndreaGallo, il primo degli ultimi #DonGallo
Mai e poi mai avrei creduto di poter versare tante lacrime per un uomo di chiesa. Mai. Eppure con Don Gallo è accaduto.
Perché lui, sì, era un uomo di chiesa ma non quella chiesa chiusa nel suo bunker dorato vaticano, ma quella dell'associazionismo sociale, quella attenta ai più bisognosi «gli ultimi» avrebbe detto Don Andrea. Lui era un prete da marciapiede, sì. Quei marciapiedi, brulicanti di storie, di sofferenze, di gioie, di vita. Quei marciapiedi, «palestre di vita» come raccontava Renato Zero, erano il suo curriculum. Prostitute, tossicodipendenti, barboni, transgender, poveri erano le «pietre vive» con cui lui nutriva la propria sete di giustizia, di riscatto sociale. E, a sua volta, nutriva di coraggio e speranza quegli ultimi, dimenticati da tutti, nelle periferie della vita. Quegli ultimi che spesso non volevano avere a che fare con la chiesa, così distante, così lontana dagli emarginati.
Ecco, il primo miracolo di Don Andrea è stato questo: ha insegnato a distinguere la fede dalle gerarchie ecclesiastiche vaticane. Ha insegnato a distinguere buoni e cattivi, anche nella Chiesa. Ha incuriosito non solo cattolici non praticanti, ma anche agnostici e atei, con la sua direzione, ostinata e contraria, alle ingiustizie dei nostri tempi.
L'altro miracolo è accaduto oggi: funerali dove, perlopiù, erano presenti persone che in chiesa non erano mai entrati e/o che a funerali di un religioso mai avrebbero pensato di partecipare. Eppure erano tutti lì: i suoi ultimi, primi, davanti a tutti. Poi No-Global, No-Tav, soubrette, metalmeccanici, giovani dei centri sociali, autorità istituzionali...erano tutti lì, stretti attorno a lui in un colorato abbraccio, sotto il pianto del cielo genovese.
Il più spaesato, quello che sembrava un corpo estraneo in quella chiesa era proprio l'arcivescovo di Genova, il cardinal Angelo Bagnasco. Quasi ignorato e poi contestato apertamente in chiesa, durante le celebrazioni religiose. A testimoniare la profonda frattura tra coloro che lottano per vivere tutti i giorni e le istituzioni ecclesiastiche, più preoccupate dagli equilibri politici interni che dalle sofferenze dei cittadini: il contrario degli insegnamenti di Don Gallo.
E lì si è consumato quello che oserei chiamare "un evento", un miracolo possibile solo per l'effetto della magnifica presenza del Don: per la comunione, il cardinal Bagnasco s'è ritrovato di fronte Vladimir Luxuria (che poi ha spiegato «non prendevo la comunione da quando avevo 17 anni: l'ho fatto per Don Gallo) e le altre transgender aiutate dalla Comunità di Don Gallo. Quasi indifferente, ha offerto «il corpo di Cristo» anche a loro. Con normalità. Come dovrebbe essere per chi professa tutti i giorni «pace e amore» e poi fa distinzioni che incitano alla violenza verbale e fisica.
Una giornata ricca di emozioni, che ha consegnato alla storia la figura di un uomo, Andrea Gallo da Genova - Partigiano e antifascista - diventato prete forse per sbaglio. E sarebbe sbagliato dire che ha «lasciato un vuoto»: lui ci ha lasciato tantissimo. Lo abbiamo visto nella giornata di oggi, dove una città era per metà paralizzata dal fiume colorato di vita che ha voluto dargli l'ultimo saluto terreno. Ma non solo: lui ha insegnato il valore del rispetto. Il valore delle diversità. Il valore della vita propria e altrui. Il saper distinguere fede e gerarchie ecclesiastiche. Ha lasciato una ironia che faceva sorridere ma riflettere, una ironia che colorava le sofferenze rendendole più lievi.
Insomma, un patrimonio umano immenso, impossibile da disperdere, buono solo da difendere e diffondere. Diffondere grazie ai «trafficanti di sogni» che tutti noi dovremmo essere. Perché chi non sogna s'è già arreso, ha smesso di vivere, di parteggiare. E non potrebbe onorare al meglio la memoria di quello che è stato un Uomo con la "U" maiuscola.
Grazie infinite, Don Andrea. Non la dimenticheremo mai.
Fabio Nacchio | @NorthernStar88
The miracles of Don Gallo, the first among the last
I never thought I could cry this much for a man of the Church. Never. And yet it happened with Don Gallo. Because he was a man of the Church, but not the Church closed in its golden Vatican bunker: he was the man of a Church that was careful with the needy, the "last", as Don Andrea would have said. He was a priest of the streets, yes. Those streets, filled with stories, suffering, joy, life. Those streets, "schools of life" as Renato Zero said, were his CV. Prostitutes, drug addicts, homeless, transgender, poor, were the "living stones" with which he nurtured his thirst for justice and social redemption. And on the other hand, he fed courage and hope to them, the forgotten, the ones dwelling at the periphery of life. Those "last" who often didn't want anything to do with the Church, so distant, so far away from the emarginates.
So the first miracle of Don Andrea was this: he taught to distinguish faith from the Vatican hierarchy. He taught to tell right from wrong, even inside the Church. He attracted not only non praticant Catholics, but also agnostics and atheists, with his direction, obstinate and contrary, to the injustices of our time.
The other miracle happened the other day: funerals where the most people were people who had never entered a church and/or would never have thought to participate at the funerals of a priest. And yet they were all there: his last, first, in front of everyone else. And No-Global, No-Tav, soubrettes, mechanics, young people of the social centres, institutional authorities... they were all there, around him in a colorful hug, under the tears of the Genoa sky.
The most out of place, the one who seemed a foreign body in that church was the archbishop of Genoa himself, Cardinal Angelo Bagnasco. Almost ignored and then openly contested inside the church, during the religious celebrations. Witnessing the profound fracture between those who fight to live every day and Church institutions, more worried by the internal political balances than the suffering of citizens: the exact opposite of Don Gallo's teachings.
And then there was what I would call an "event", a miracle possible only for the effect of the magnificent presence of the Don: for the comunion, Cardinal Bagnasco found in front of him Vladimir Luxuria (who then said: "I didn't get the comunion since I was 17 years old: I did it for Don Gallo) and the other transgenders helped by the community of Don Gallo. Almost indifferent, he offered the "body of Christ" to them as well. With normality. As it should be for those who profess "peace and love" every day, and then makes distinctions that invite to verbal and physical violence.
A day rich of emotions, that has put in history the figure of a man, Andrea Gallo from Genova, partisan and antifascist, who became a priest perhaps by mistake. And it would be wrong to say thar he left a void behind: he left a lot behind. We've seen it yesterday, with a city half paralized by the colorful stream of life who wanted to give him the last goodbye. But not only: he taught the value of respect, the value of diversity. Tthe value of life, our own and other's as well. Knowing how to distinguish between faith and hierarchy. He left an irony that made people smile and think, an irony that colored suffering making them easier to bear.
A huge human patrimony, impossible to lose, that needs to be protected and diffused. Diffused thanks to the "dream dealers" that all of us should be. Because those who don't dream have already given up, have stopped living, taking part. And could not honor the memory of a Man, with a capital M.
Thank you, Don Andrea. We will never forget you.
Fabio Nacchio | @NorthernStar88
Etichette:
cardinal bagnasco
,
diritti civili
,
don andrea gallo
,
don gallo
,
fabio nacchio
,
gay
,
genova
,
intervistato
,
jacopo paoletti
,
maria petrescu
,
transgender
,
vladimir luxuria
sabato 25 maggio 2013
#Storiedeldisonore: via d'Amelio, quattro processi e poca verità (pt. 2)
Una storia quella della strage Borsellino scritta da Vincenzo Scarantino, delinquente di basso lignaggio criminale, che si rivelerà essere poi falsa, ma che reggerà tre gradi di giudizio portando alla condanna di undici persone, di cui sette all’ergastolo, nell’ambito dei processi Borsellino e Borsellino-bis.
Per anni è la sua la versione ufficiale della strage di via d'Amelio. Nonostante le rimostranze di alcuni pm tra cui Ilda Boccassini, coloro che rappresentano l'accusa nei processi, tra cui anche l'attuale pm titolare dell'inchiesta sulla cosiddetta "trattativa" Antonino di Matteo, danno la patente di credibilità a Vincenzo Scarantino. Scagliandosi anzi contro coloro, in particolare tra i giornalisti, che seminano dubbi sulla credibilità del pentito. Oggi lo chiamano ‘depistaggio‘, mentre fu anche un clamoroso errore investigativo-giudiziario, e le revisioni alle condanne scaturite dalla ricostruzione Scarantino ne sono una ulteriore prova. E' stato Gaspare Spatuzza a consegnare agli inquirenti quella che oggi viene ritenuta la versione più vicina alla verità della preparazione dell'attentato.
Le prime indagini sulla strage di via d’Amelio vennero lasciate in balia della Polizia, in particolare, ad Arnaldo La Barbera, superpoliziotto di cui la procura di Caltanissetta aveva stima e fiducia. Purtroppo la sua versione non si saprà mai. Morirà stroncato da un tumore nel 2002, periodo in cui la storia di questa strage era ancora quella di Scarantino.
Di certo quel 19 luglio del 1992 e nelle giornate immediatamente successive le disattenzioni furono molte, e le amnesie dei vent'anni successivi hanno contribuito a intorbidire acque già scure. Basti pensare al trasporto dei reperti rinvenuti sul luogo della strage all’interno di sessanta sacchi neri spediti agli uffici romani dell’FBI. Che dentro quei sacchi non ci fosse anche la famigerata agenda rossa su cui Borsellino nelle ultime settimane prendeva appunti riguardanti le sue indagini?
Dopo la morte di Falcone e quella immediatamente successiva di Borsellino, le misure straordinarie del contrasto alla criminalità organizzata, tra cui il ripristino del carcere duro, mettono Cosa Nostra in agitazione, che insanguinerà anche Roma, Firenze e Milano nel 1993. Si fa strada l’ombra di una ‘trattativa‘ per fermare il terrorismo mafioso e per arrivare a quel Totò Riina, imprendibile boss di Cosa Nostra, e ritenuto il capo dei capi.
Ma di ‘trattative‘ ne è piena la storia d’Italia, e, senza ipocrisie, pure quella delle investigazioni antimafia. Non stupisca quindi, che due appartenenti ai Reparti Operativi Speciali dei Carabinieri come Mario Mori e Giuseppe de Donno, siano andati a cercare il contatto proprio con quel Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo, legato a doppio filo al gotha di Cosa Nostra e a quello della Democrazia Cristiana.
Il baratto per fermare la stagione delle bombe starebbe nel cosiddetto ‘papello‘, altro oggetto misterioso di quella stagione controversa, che la collaborazione del figlio di don Vito Ciancimino, Massimo, non ha contribuito a chiarire, nonostante abbia fatto emergere alcuni elementi rimasti prima nell’ombra.
«Quando non si può più fare finta di niente - ha spiegato più volte Giuseppe di Lello, uno dei componenti del fu pool antimafia di Falcone e Borsellino - allora lo stato interviene»: trecento detenuti mafiosi vengono trasportati all’alba del 20 luglio 1992 nelle prigioni dell’Asinara e Pianosa, per essere sottoposti al regime del carcere duro, il cosiddetto 41-bis. Dieci giorni più tardi sbarcarono in Sicilia i primi contingenti dell’esercito italiano per l’operazione “Vespri siciliani”. Occupano e proteggono gli obiettivi ritenuti sensibili, rappresentando un eccezionale impiego dell’esercito dentro i confini nazionali. [to be continued...]
Luca Rinaldi | @lucarinaldi
Stories of dishonor: via d'Amelio, four trials and no certainties
A story, the one of the Borsellino massacre, written by Vincenzo Scarantino, a low criminal profile offender, which will be soon revealed to be false, but that will hold for three degrees of trials leading to the conviction of eleven people, of which 7 to life in prison, in the Borsellino and Borsellino-bis trials.
For years his was the official version of the d'Amelio street massacre. In spite of the doubts of some PMs among which Ilda Bboccassini, the ones who represent the State in the trials, among which the current PM working on the so called "treaty" Antonino di Matteo, give the sigil of credibility to Vincenzo Scarantino. Accusing those who, especially among journalists, diffuse doubts on the credibility of the collaborator of justice. Today they call it "screening", but it was also a huge judiciary mistake, and the revisions to the convictions derived from the Scarantino reconstruction are another proof of that. It was Gaspare Spatuzza who gave the investigators the version which is now considered to be nearest to the truth in the preparation of the attack.
The first inquiries on the d'Amelio street massacre were left to the Police, and in particular to Arnaldo La Barbera, policeman that the Caltanissetta department trusted and respected. Unfortunately we'll never know his version. He died because of a tumor in 2002, a time when the official version was still the one of Scarantino.
Surely on that July 19th of 1992 and in the days after, careless mistakes were many, and the amnesia of the following 20 years have contributed to muddy waters that were already quite dark. Just think about the transportation of evidence found on the spot inside sixty black sacks sent to the Rome offices of the FBI. Is it possible that missing from them was the red notebook on which Borsellino used to write his notes on the inquiries in the last weeks of his life?
After Falcone's death and the one, shortly after, of Borsellino, extraordinary measures against organized crime, among which the return of "hard prison", put Cosa Nostra in turmoil, and will make Rome, Florence and Milan bleed in 1993. The shadow of a "treaty" to stop mafia terrorism appears, and of course to catch Totò Riina, the unapprehendable boss of Cosa Nostra, considered to be the boss of bosses.
But the history of Italy is full of "treaties", and without hypocrisy, also the one of the antimafia investigations. We shouldn't be too amazed by the fact that two members of the Special Operative Department of the Carabinieri such as Mario ori and Ggiuseppe de Donno have tried a contact with that same Vito Ciancimino, former mafia mayor of Palermo, linked to Cosa Nostra and Democrazia Cristiana at the same time.
The exchange to stop bombs was the so called "papello", another misterious object of that controverse time, that the collaboration with don Vito Ciamcimino's son Massimo, hasn't contributed in clearing any better, in spite of the fact that it has managed to make a few elements emerge, that were previously left in the shadows.
"When you can't pretend it's nothing - Giuseppe di Lello has explained several times, one of the components of the former antimafia pool of Falcone and Borsellino - then the State intervenes": three hundred mafia convicts are transported on July 20th 1992 in the prisons of Asinara and Pianosa, in order to be put under the regime of "hard prison" the so called 41-bis. Ten days later the first contingents of the Italian army come to Sicily for the "Vespri siciliani" operation. They occupy and protect delicate targets, and represent an exceptional use of the amy inside national boundaries.
Luca Rinaldi | @lucarinaldi
Etichette:
borsellino
,
falcone
,
intervistato
,
jacopo paoletti
,
luca rinaldi
,
mafia
,
maria petrescu
,
storie del disonore
,
storiedeldisonore
,
vincenzo scarantino
,
vito ciancimino
venerdì 24 maggio 2013
#Balotelli: simbolo anti-razzista nell'Italia delle etichette
Balotelli-razzismo, Saviano-mafia, Schettino-Concordia. L’elenco delle etichette potrebbe continuare all’infinito.
Personaggi che diventano simbolo, consapevolmente o inconsapevolmente, di qualcosa di più ampio che rischia di ridursi, personalizzarsi, perdere valore. I buu razzisti fanno male, ma non solo quando a riceverli è il calciatore Mario Balotelli. Parlare della mafia è un obbligo, un dovere (a mio avviso dovrebbe essere istituito un programma su mafia e antimafia già dalle scuole elementari) ma non solo quando a scriverne è Roberto Saviano. E fare giustizia di uno dei disastri più gravi degli ultimi anni, e cioè la nave Costa Concordia naufragata all’Isola del Giglio, in Toscana, è una necessità ma non deve diventare notizia solo quando si parla dell’ex comandante Francesco Schettino.
Sono solo tre esempi, tre nomi tra tanti. Tre etichette di cui l’Italia, però, non sembra poter fare a meno. Ed è così che nei giorni subito dopo il naufragio della nave, che il 13 gennaio 2012 ha provocato 32 vittime innocenti e che tuttora giace al largo della piccola isola toscana, è subito nata la contrapposizione. Schettino il cattivo contro De Falco (l’uomo del “Vada a bordo, cazzo!”) diventato l’eroe di turno. Non una novità, ma un modo di vedere il mondo. Così in politica non si vota per il Pdl ma per Berlusconi, non per il Movimento 5 Stelle ma per Grillo. Il Paese ha bisogno di simboli a cui aggrapparsi, creare dicotomie a cui rifarsi. Paralizzarsi su opposizioni che rischiano, però, solo di creare falsi modelli, falsi miti che spostano l’attenzione dal problema più ampio.
Prendiamo Balotelli, ad esempio, diventato il simbolo della lotta al razzismo. Giusto, giustissimo lasciare il campo quando si è sommersi dai buu razzisti. Ed è giusta anche la presa di posizione del ministro per l’integrazione Cecile Kyenge che, dopo i fatti di Firenze dove il Milan è stato contestato alla stazione di Campo di Marte dopo la partita vinta contro il Siena il calciatore del Milan aveva ricevuto, da parte di alcuni tifosi, degli insulti con ululati razzisti: “Non tutti i cori sono razzismo - ha detto il ministro - bisogna essere lucidi per capire quando si parla di razzismo, quando di sport e di una sconfitta sportiva, quando di altre motivazioni".
E’ giusto, quindi, valutare caso per caso per evitare personalismi. E per evitare prese di posizione come quella del tecnico boemo Zdenek Zeman: "Chi fa questi gesti è gente sciocca che si scarica così, però ripeto che per me non è razzismo, è sciocchezza, certa gente non sa nemmeno cosa sia il razzismo" - ha affermato Zeman - "Certamente i comportamenti di Balotelli non sono sempre da esempio, nè per i giovani nè per i vecchi, e ciò influisce".
Un ragionamento, però, sbagliato su più fronti. Il razzismo è figlio dell’ignoranza, della “sciocchezza” e affermare che Balotelli in qualche modo è un provocatore è un grave errore. Per dirla con le parole di Cesare Prandelli, l’allenatore della Nazionale italiana, “è come dire che le donne subiscono violenza perché molte se la vanno a cercare”.
Gerardo Adinolfi | @gerryadi
Balotelli the anti-racism symbol in the Italy of labels
Balotelli-racism, Saviano-mafia, Schettino-Concordia. The list of labels could go on forever.
Characters who become symbols, whether with awareness or not, of something that's much bigger and that risks to shrink, personalize, lose value. The racist booing hurts, but not only when the one receiving it is soccer player Mario Bbalotelli. Talking about mafia is a must (I believe a program about mafia and antimafia should be instituted since elementary school) but not only when the one writing about it is Roberto Saviano. And making justice out of one of the most devastating disasters of the last years, when the Costa Concordia sunk in front of the Giglio island in Tuscany, is a necessity - but it mustn't become news only when talking about ex commander Francesco Schettino.
These are three examples, three names among many. Three labels that Italy doesn't seem to be able to get rid of. And that's how in the days right after the Concordia shipwreck, which on January the 13th 2012 has caused 32 innocent victims and that is still laying on its side just next to the small Tuscany island, the counterposition was instantly created. Schettino the bad gu against De Falco, who has become the hero. Not something new, but a way of seeing the world. Like in politics, you don't vote for PDL but for Bberlusconi, not for the M5S but for Grillo. The country needs symbols to cling on, create dychotomies for safety. Paralizing on oppositions that risk to create false models, false myths that shift attention from the bigger problem.
Let's take Balotelli, for example, the man who has become the symbol of the fight against racism. Right, very right to leave the field when you're overwhelmed by racist booing. And Cecile Kyenge's position after the Florence facts where the Milan has been contested at the Campo di Marte train station after the game won against Siena, the Milan soccer player had received insults with racist shouts: "Not all shouts are racist - the minister has said - you must be very clear in understanding when you talk about racism, when about sports and when about a sports defeat, or other reasons." It's right to evaluate case by case to avoid personalisms. And to avoid positions like the one of technician Zdenek Zeman: "Who does these things are stupid people who relax like this, it's not racism for me, it's stupidity, some people don't even know what racism is" - Zeman stated - "Of course Balotelli's behavior is not always an example, not for young people nor for older people, and that is influential".
A reasoning that is wrong on more than one level. Racism is son of ignorance, of "stupidity" and stating that Balotelli is somewhat of a provocator is a big mistake. To say it with Cesare Prandelli's words, the trainer of the Italian National team, "it's like saying that women are victims of violence because many of them are looking for it".
Gerardo Adinolfi | @gerryadi
Etichette:
balotelli
,
cecile kyenge
,
gerardo adinolfi
,
intervistato
,
jacopo paoletti
,
maria petrescu
,
razzismo
giovedì 23 maggio 2013
Dal Salone del Libro #SalTo2013, una vecchia storia comunista...e calabrese
Il Salone di Torino 2013 si è chiuso. Record di visitatori e di acquisti. Una buona cosa, soprattutto perché permetterà al capoluogo piemontese di conservare la fiera e di non vederla trasferita nella nuova fiera di Rho vicino Milano. Non sarebbe più la stessa cosa.
Ci sono due cose che si dovrebbero migliorare: l'organizzazione, che in certi parti non è impeccabile, anzi; poi si dovrebbero sfrondare alcuni elementi di paraletteratura. Insomma, capisco Masterchef, ma quante dimostrazioni di cucina ci debbono essere in un Salone del Libro? Però si fanno anche degli incontri interessanti. Recentemente mi ha capitato nella mani un libro, si chiama Blocco 52 di Lou Palanca. Si tratta di scrittura collettiva, con un nome fittizio che viene da un omaggio a Luther Blisset, e a Massimo Palanca, grande centravanti del Catanzaro anni '70, l'uomo che segnava da calcio d'angolo. Ma non è un libro che parla di calcio.
Se ne sono accorti i Wu Ming, che li hanno intervistati nel loro blog, in maniera approfondita, soprattutto sulla narrazione ma anche sulle caratteristiche "calabresi" del libro. Perché diciamolo la Calabria non va di moda, nonostante fosse la Regione Ospite d'Onore al Salone del libro di quest'anno, ma in fondo per la maggior parte degli italiani ha prodotto solamente ndrangheta e anduja, mentre c'è tanto altro, come un meraviglioso termine, ciotia, che ho usato oggi per un post sul mio blog. Poi che questa organizzazione criminale sia radicata e ramificata non nel resto di Italia, ma del mondo, che quello sia un salame piccante tipico solo di una piccola parte della regione, non conta. Perché? Perché non va di moda e perché i calabresi, che hanno un meraviglioso senso di appartenenza, non sanno gestire la propria immagine. Io ho scelto di parlare di questo libro perché mi è piaciuta e perché racconta una storia dimenticata, la storia di un ex funzionario del Pci, ucciso la sera del 1 Aprile 1965, mentre rientrava a casa sua, a Catanzaro, colpito da cinque pallattole alla schiena e due alla testa.
Luigi Silipo (nella foto) è un comunista, figlio di un gioiellerie, che arriva ai piani alti di Botteghe Oscure, quando il Pci era il "grande Pci", il partito e non una formazione di centrosinistra. E' un uomo serio, colto, con una forte dialettica, ma che a un certo punto viene spostato d'incarico, forse per le sue simpatie ingraiane, o forse perché non è convinto del nuovo corso che sta per intraprendere. Così diventa il segretario del movimento dei braccianti, sempre con forza e anche lì comincia ad essere scomodo, spesso non solo per i latifondisti ma per il suo partito. Una storia che mescola trame che passano per Roma, Catanzaro e Praga, che intrecciano politica, famiglie, speranze e illusioni. Una storia vera, che nonostante i grandi funerali, parteciparono i vertici del partito, compreso l'attuale Presidente Napolitano. Ma in poco tempo tutto fu dimenticato, abbandonato, il nome di Silipo quasi impossibile da fare ad alta voce. Ci sono già le avvisaglie di un Partito che abbraccerà i ceti dei professionisti, cercando di non perdere la base operaia, ma lasciando gli agrari al loro destino, c'è la Calabria che si prepara ad esplodere, i moti di Reggio Calabria saranno 5 anni dopo, ci sono gli scontri ancora con i missini e la divisione coi socialisti. Ci sono anche le donne, quelle del sud, diverse da come ce le hanno sempre presentate. Ci sono uomini e donne, con le loro storie, i loro errori e le occasioni perdute. Tutti i protagonisti si ritrovano nel presente. Almeno solo per ricordare quello che è successo.Una strana storia. Una storia del passato, ma neanche tanto. Resta il fatto che c'è un Sud del nostro paese che è una terra straniera, nascosta, o meglio che è stata nascosta e di cui qualcuno non vuole che si parli ancora oggi.
Simone Corami | @psymonic
martedì 21 maggio 2013
Mass Age Mess Age: la difesa del web libero, che non è libero
Nelle ultime settimane si è tornato a parlare di “bavaglio alla rete” dopo l'ormai famigerata intervista di Repubblica a Laura Boldrini, che denunciava abusi e minacce subite da una massa di squilibrati via web (lo stesso squilibrio, sia chiaro, che spinge da anni a utilizzare Twitter e Facebook per inviare auguri ferali agli esponenti delle parti politiche opposte).
Sono seguite una serie di proposte surreali culminate con l'annuncio del comandante della polizia Postale di voler istituire delle “volanti” che faranno la ronda sui social network per prevenire abusi (buona fortuna).
Intanto i difensori della libertà del web accusano le istituzioni italiane di cogliere l'occasione per attuare le sempre latenti volontà censorie e – non sempre a torto – di scarsa conoscenza del mezzo.
La realtà dei fatti, però, non è così semplice. Come ricorda Matteo Flora, in Italia la censura su siti web esiste già dal 2006 e fu allora accettata pressoché nel silenzio: “Nel momento in cui state leggendo, – scrive Flora - in Italia sono censurati 5.657 siti web, di cui 4322 su direttive dei Monopoli di Stato, 1199 dal CNCPO (Centro nazionale per il contrasto alla pedo-pornografia su Internet, NdA) e 136 con singoli provvedimenti dell’autorità giudiziaria o di organi amministrativi”.
Ma il web 'libero' non è soltanto fatto di siti che possono essere oscurati direttamente dalle autorità italiane. Per moltissimi, anzi, l'esperienza del web – e degli abusi e delle manifestazioni di idiozia - è mediata quasi totalmente da piattaforme che operano sotto giurisdizioni estere (quasi sempre USA), che adottano policy estremamente mutevoli e spesso poco trasparenti, se non vessatorie nei confronti degli utilizzatori.
E qui, ci troviamo di fronte a un doppio paradosso, che mescola le carte in tavola.
Primo paradosso del web libero: la censura dei cretini
“CI IMPEGNIAMO A MANTENERE FACEBOOK ATTIVO, ESENTE DA ERRORI E SICURO, MA L'UTENTE ACCETTA DI UTILIZZARLO A SUO RISCHIO E PERICOLO.” (Dai termini di servizio di Facebook)
A Google, Facebook o Twitter (per citare solo alcuni nomi) affidiamo i nostri dati personali, la nostra identità in rete e spesso il nostro lavoro. Le condizioni a cui concediamo tali dati sono un argomento che troppo spesso ignoriamo, salvo poi cadere dalle nuvole e gridare all'abuso quando ne subiamo le conseguenze.
“Google potrebbe anche interrompere la fornitura di Servizi all’utente oppure stabilire nuovi limiti di accesso ai Servizi in qualsiasi momento” recita uno dei tanti termini di utilizzo che sottoscriviamo senza leggere, nella fretta di utilizzare Gmail.
Il primo paradosso del web libero è questo: per scomparire o subire limitazioni da una di queste piattaforme basta a volte che qualche utente faccia una segnalazione – e spesso non importa se risponde al vero - o che uno stupido algoritmo rilevi la probabilità – non la certezza - di una violazione di una policy che non è dato conoscere.
Succede: mentre scrivo, apprendo che la visione di un video di un mio cliente su YouTube è stata limitata a un pubblico maggiorenne, su segnalazione della community (cioè gli utenti), sebbene non contenga alcuna oscenità o richiamo alla violenza. Possibilità di riesaminare la posizione? Non contemplata.
La scorsa settimana, l'account Facebook di Alfredo Accatino, noto e stimato pubblicitario, è scomparso per alcuni giorni con tutti i contenuti. Lo stesso è accaduto alla community Indigeni Digitali lo scorso marzo. Profilo e community ripristinati dopo alcuni giorni, ma senza alcuna spiegazione sui motivi da parte del servizio.
Quanto poi alla libertà che tali piattaforme si riservano sui nostri contenuti, su cui spesso conservano diritti anche dopo la cancellazione, invito a dare una lettura al sito Terms of service: didn't read, che offre una panoramica completa ed esaustiva.
Secondo paradosso: acchiappa il tuo stalker
Perlomeno, direte voi, se qualcuno pubblicherà le mie immagini private taggate con il mio nome e cognome, sarà facile segnalare l'abuso. E qui ci scontriamo con il secondo paradosso, perché rischiamo di trovarci come l'agrimensore K. alle prese con il Castello. Massimo Melica ha esposto le enormi difficoltà operative di chi si trova ogni giorno a tutelare le vittime di questi abusi via web, sia per la ben nota lentezza della giustizia italiana, sia perché si dovrà contattare i gestori delle piattaforme per chiedere – e non sempre ottenere – che si blocchi la diffusione dei contenuti.
Emerge così la questione delicata del diritto all'oblio e il secondo paradosso appare – per così dire – ancora più chiaro: se è possibile essere baditi da Facebook o da Google senza conoscerne il motivo, i contenuti diffamatori a nostro nome possono rimanere in rete per sempre, magari nel frattempo scaricati da altri utenti e ripubblicati su altri profili. Evidentemente c'è qualcosa di distorto nel sistemi di algoritmi e segnalazioni.
La faccenda sfugge poi di mano quando al singolo stalker si aggiunge l'accanimento dello sciame umano, come nel tristissimo caso di Amanda Todd, narrata da Giovanni Scrofani su Datamanager, vessata via web e fisicamente dai propri persecutori, ma diventata anche contenuto virale in rete, oggetto di giudizi impietosi e di commenti aberranti da parte di propri coetanei, “condannata e spinta al suicidio, con la facilità con cui si commenta uno status su Facebook”.
Conclusione provvisoria
Chi o cosa è libero? Chi o cosa dà le carte al tavolo? Un algoritmo. Un delatore in vena di burle. La necessità di punirne uno per tutelarne migliaia, o meglio per tutelare sé stessi. Il caso. L'errore. La probabilità. L'imitazione. Più probabilmente, l'interazione tra tutto ciò.
Mi pare sia chiaro che la realtà dei fatti non corrisponda alla contrapposizione schematica censura/non-censura.
In gioco c'è la nostra libertà, le nostre identità, i nostri diritti: online e offline, non è più il caso di fare differenza. Il web, in quanto mezzo, non ha colpe in sé, ma è un'estensione delle nostre azioni, di cui non abbiamo ancora sviluppato la consapevolezza delle conseguenze né dei limiti a cui sono sottoposte.
Indagarli è una sfida da cui nessuno, per anzianità di servizio, può dirsi esente.
Francesco Vignotto | @FrancescoVi
Mass Age Mess Age: the defense of free web, which isn't free
Recently during one of my lessons, I was explaining to my students that "sharing is one of the things we can do that triggers the virality of content, along with the vote (read "like" or "+1") and the comment."
As I was talking I realized, however, that the concept of sharing that I was explaining was purely mechanical and emotional: a couple of clicks, perhaps a line to explain why we like or dislike that content and that's it. It is all very far from what, just a few years a go, made the "philosophy of the Internet".
Giuseppe Granieri, in his Blog generation, explains very well how bloggers were dedicated to finding "interesting content on the web and sharing it with others". A sometimes weary work of research, selection and publication of new knowledge. The web itself, not Arpanet but Internet itself, was born to connect Universities and make knowledge available. The goal was the much advertised "collective intelligence, superior to the simple sum of the ones composing it". In essence, the concept was that reasoning together, putting intelligences together, would have brought to a collective enrichment that was impossible to reach separately.
Coming back to what I was explaining to my students, it appears obvious that it's not like that anymore. We share in the optic of the simple transmission of an information, not very different from the tendency, during friends reunions, of saying "do you know what happened or what Tizio or Caio did"? and to accompany this information only with emotional instinctive expressions: nice ugly, funny, surprising, incredible, and so on. The torsion of the concept of sharing, oeprated by social networks, has taken it much nearer what is commonly called Gossip. More than "Share", the Facebook button should be called "Transmit" or "Whisper".
It's the word of mouth dynamic, someone will answer me. In the end, the web is nothing more than the digital projection of human society and thus replicates its dynamics, whether they be nice or ugly. Here the problem isn't that the phenomenon is ugly or beautiful, right or wrong, it's that it doesn't take us anywhere, and actually only creates more problems, starting for example from the scarce reliability of information travelling on the web. The gossip dynamics doesn't include a verification of the veridicity of information per se, nor any preoccupation in terms of responsibility of the fact that we're actually publishing something.
If we add the times of the Web and the dynamics of people's attention, it appears pretty obvious that, in the end, we react in an instinctive, immediate way, trnsmitting emotions and not "knowledge" and that we tend to avoid complex content. This post itself, for example, will surely be too long for the majority of people who will see it.
But what happened to the good Jon Postel, true founding father of the Internet, who in 1981 formulated the law which carries his name and that describes the social function of the web: "Be conservative in what you do, be liberal in what you accept from others", which means that online it is necessary to be careful, and thus rigorous, respectful, exact and precise regarding what we propose to others. And we must be liberal, which means open to listen and favor and respect the freedom of thought and initiative of others in the act of receiving.
In substance Postel said that the web is a social ecosystem in which the engine is the communication based on exchange, listening, respect of one another, bringing value, interaction. Who enters and communicates online has the responsibility for what they say and does, but also a responsibility towards the others, which is the taslk of interacting, listening, sharing. Sharing in a view of added value, not gossip.
This law is now dead, on a web where billions of contents flow and in which the virality is a tool that is more and more encouraged for commercial reasons, and where even the so called influencers are measured not on the quality of what they say, but on how well they can engage their communities: visibility before everything else.
I read myself and I have the sensation of having written like those nice old people who say "well, when I was young things were quite different". Might be, but I continue to think that this gossipy web, more and more similar to the commercial television is, more than anything, a huge missed opportunity.
Francesco Vignotto | @FrancescoVi
Etichette:
algoritmo
,
censura
,
francesco vignotto
,
intervistato
,
jacopo paoletti
,
limitazione
,
maria petrescu
,
piattaforma
,
social media
,
web
lunedì 20 maggio 2013
#Terremoto in #Emilia: 365 giorni e una manciata di ore dopo
365 giorni e una manciata di ore, nel momento in cui leggerete questo post. E' questo il tempo trascorso da quella notte del 20 maggio 2012, quando la terra d'Emilia tremò la prima volta scuotendo i letti di chi pensava di vivere in una zona a bassissima sismicità. Io ero tra loro.
Un anno in cui la nostra terra, la mia terra, ha tenuto botta, come recitavano, in una sorta di tin bòta!
invocazione a noi stessi, i braccialetti che dopo le scosse di quella maledetta settimana hanno cominciato ad agghindare i polsi di molti abitanti:
E in un modo o nell'altro abbiamo tenuto botta, nonostante tutto, nonostante la terra continui ancora a tremare. C'è ancora molto da fare, (anche se tanto è stato fatto) te ne accorgi parlando con la gente delle zone colpite, ma i segni del terremoto si cominciano a notare meno. O forse siamo noi, noi che non vogliamo vederli. Come quello ferito che finge di non notare la vistosa cicatrice, per sentirsi normale, per tirare avanti. Non lo so.
La regione Emilia Romagna intanto pochi giorni fa ha pubblicato un video di 14 minuti in cui riepiloga lo stato dei lavori e quel che è stato fatto, qualche numero.
Proprio l'altro giorno ho finito di risistemare la pesante copertura del camino. Con le due violente scosse era ruotata di 30 gradi rispetto al suo asse. Se ne era stata lì per tutto l'inverno, in cima a tutto, simbolo di un evento che non avrei mai voluto vivere. Ogni volta che la fissavo la mente tornava a quei giorni. Ora, anche se l'effetto è puramente placebo, guardarla mi da un senso di normalità. Sono piccole cose, ma aiutano.
Qualcuno ha detto e dice che il terremoto era prevedibile, che c'era una carta un po' allarmante, di qualche mese prima, che faceva riferimento ad una attività minore, che comunque aveva messo in allerta gli organi preposti al monitoraggio. E pure il giudice Grieco, quello che segue le indagini sul Terremoto dell'Aquila dice che, ad esempio, l'evento abruzzese non era affatto imprevedibile. Lo ha scritto qualche giorno fa nelle motivazioni della sentenza. Ma ad oggi, rimane inutile polemica, ed scientificamente non provata la prevedibilità di un determinato evento sismico. Per ora. Almeno così ci dicono.
Inutile non è invece la prevenzione, l'educazione, i controlli e la comunicazione alle norme di sicurezza, di edificazione in materia antisismica. Sia nell'ambito privato che in quello lavorativo. Tra il 20 e il 29 maggio delle 28 vittime, in maggioranza erano operai caduti sui rispettivi posti di lavoro. Costruzioni al di fuori di ogni criterio antisismico, si capirà poi. Ma oltre i posti di lavoro viene inevitabile pensare agli edifici scolastici che in molte parti del paese versano in uno stato di degrado e fatiscenza. In questi giorni si è parlato di evitare tagli alla scuola: invece di evitare, investiamo nella messa in sicurezza di questi edifici, prima di tutto. Passaggio indispensabile in un paese ad elevata sismicità come il nostro dove, lo si è visto, anche in un posto comunemente ritenuto a bassa intensità sismica può accadere l'impensabile.
Mentre butto giù queste righe ripenso a quei giorni, e ripenso a qualche anno prima, quando dopo il sisma aquilano mi chiesi come ci si dovesse sentire. I due eventi non sono forse paragonabili. Ogni storia è a se. Ma qualche similitudine forse, negli stati d'animo. Oggi capisco ancora di più l'urgenza disperata di quel grido, delle proteste, dello sconforto, della indignazione, della fretta di quelle terre: vogliamo ripartire, non lasciateci soli.
Perché è davvero un nulla, dopo le photo opportunity e le promesse, rimanere impantanati in un dramma nel dramma: l'immobilità di un tempo che non sembra riavviarsi più. Ma qua, nonostante gli orologi delle torri campanarie si siano fermati alle 04:03:52 del 20 maggio 2012, grazie alla cocciutaggine che indipendentemente da tutto hanno fatto spesso l'impossibile, almeno nelle nostre menti, nei nostri cuori, nelle nostre mani le lancette hanno ripreso a girare per molti. Ora è tempo di rimettere in moto anche quelle di chi è rimasto fermo. Perché è questo che fa una comunità.
Matteo Castellani Tarabini | @contepaz83
Earthquake in Emilia: 365 days and a few hours later
Here is the piece, actually pieces of rubble that fall on me (not so much stuff, to be honest, but enough to make you say a couple of epic swearings). Morale, I thought it's not my skill to bring me on the piece, it's the piece that's coming and sometimes it's quite scary, a fear that goes bone deep and makes you stay focused. Like at 4 a.m., when the instinct says run outside on the stairs but the brain tells you to wait until it's done before you do something stupid. The brain won, in those long seconds, 10, 15, I don't even know how many.
What I do know is the noise that throws you out of bed without giving you the time to understand, the earth that's shaking hard, the 9 stories above you that dance in the air while the walls crack and the rubble falls and you ask yourself: will the shack up there hold? Yes, it holds. Then you go out on the streets, in front of the fountain Graziosi and you look into the eyes of the others. You see the young ones, a bit frightened, while the older, the grandparents, those go back inside after a short while. People who have seen stuff in their lives, that don't get scared that easily and that a bit you envy for how the hell they do it.
Then you take the mobile phone and start looking at the tweets. When you start reading you see updates from Padova, Milano, from Veneto to Trentino to Liguria. You wonder, but don't realize, you don't think you're the epicentre (you never do, you always refuse that thought, it has to be that way, for hope), but you think that wherever it was, the place will be completely destroyed. It's not, but already there are damages, deaths, wounded, and 3000 evacuated people. You look for information on media, nothing, you refresh, nothing. Only the people, the people on the streets, actually spread information. Good thing there's the people. You get on your car, and from Modena you go home, towards Soliera, in the general direction of the epicentre. The street is empty, the fog is going up together with the dawn that brings rain. The rain, you think, it always rains after an earthquake. Because the injustice complicates the lives of evacuated and rescuers.
At one point the brain connects. Tomorrow I have a specialistic visit (gastroscopy) at the hospital of Mirandola, one of the towns that has been hit, and quite near the epicentre. I call, they tell me to call tomorrow. Here the damages are serious, we're evacuating part of the hospital, we're waiting to understand whether the structure can be used or not. I say thanks, and hang up. I've been up since 4 a.m. I write down these lines confusely to fix the moment, while with one eye on the web, and the other on the lamp.
Matteo Castellani Tarabini | @contepaz83
Etichette:
contepaz83
,
matteo castellani tarabini
,
modena
,
sisma
,
terremoto
,
terremoto Emilia
domenica 19 maggio 2013
Intervistato.com | Michael Brandvold @michaelsb
Insieme a Michael Brandvold, esperto di comunicazione e marketing nel settore musicale e dell'intrattenimento per adulti, abbiamo affrontato alcuni temi come la gestione delle criticità online, le modalità per sfruttare i social media per aumentare le proprie vendite e come i VIP dovrebbero interagire con i propri fan.
Abbiamo chiesto a Michael come ha iniziato a occuparsi di marketing nel settore della musica: ha iniziato giovanissimo, con la radio del college, e poi ha proseguito lavorando e promuovendo band e organizzando eventi. La svolta è arrivata quando ha cominciato ad appassionarsi di Macintosh ed HTML, all'epoca una novità assoluta. Si è proposto dunque di costruire un sito web per imparare come si fa, ed essendo un grande fan dei KISS, ha scelto proprio loro come tema centrale.
Pubblicato nel 1995, il sito ha avuto un successo enorme, tanto che qualche anno più tardi Gene Simmons lo chiamò per costruire il sito ufficiale della band. Trasferitosi a San Francisco, Michael si è occupato a tempo pieno della costruzione, lancio e gestione di pagine web per band e celebrità, dai KISS a Britney Spears, da Madonna agli U2 passando per Ozzy Osbourne.
Lo scopo principale di questi siti era di vendere merchandise online, una volta che tutti i tour erano finiti e le vendite ai concerti venivano dunque a scarseggiare.
Abbiamo chiesto in quale modo sia cambiata l'interazione con i fan con l'avvento dei social media, e secondo Michael si è trattato di un cambiamento epocale, senza dubbio per il meglio. Prima di avere a disposizione i social media, interagire con i fan era molto difficile e dispendioso in termini di tempo, anche perché molto spesso si voleva evitare l'interazione diretta con i fan per ovvi motivi di privacy e sicurezza. Con Facebook e Twitter si può dialogare direttamente con i fan in tempo reale ed avere una protezione completa: certo, dipende sempre da quali e quante informazioni si decide di divulgare su queste piattaforme.
Quanto all'aspetto delle vendite, secondo Michael non dovrebbe mai essere il primo motivo per cui si è online. Non dovrebbe mai essere il motivo principale per aprire una pagina Facebook, un account Twitter o un sito web: le vendite verranno da sole una volta instaurato il rapporto con i fan. Bisogna semplicemente stare online e parlare, perché al centro dei social media c'è proprio questo: parlare e ascoltare, conversare con gli utenti.
Le aziende hanno paura di una presenza sui social media perché temono quello che i clienti hanno da dire. Nel caso invece degli artisti, la questione si fa più delicata: bisogna, secondo Michael, non prenderla mai sul personale. Tutti hanno un'opinione, e non esiste opinione giusta o sbagliata: sono solo opinioni. Quello che non bisogna fare mai è cancellare i commenti che non sono graditi, in quanto si otterebbe l'effetto contrario.
Abbiamo chiesto a Michael come si concilia il social media marketing con l'industria dell'intrattenimento per adulti. Si tratta senz'altro di una sfida: Facebook ha delle policy molto stringenti, e non permette nemmeno la pubblicazione di link che puntano a siti con contenuti per adulti. Quello che si può fare è promuovere il “glamour”, e costruire una relazione con gli utenti, in quanto vendere e promuovere il contenuto in sé non è assolutamente possibile.
Quando si parla invece di celebrità su Twitter, bisogna distinguere: ci sono alcuni VIP che si avvicinano per la prima volta a questi mezzi, e non li usano al meglio per promuovere le proprie attività o creare conversazione con i fan. Le star nel mondo dell'intrattenimento per adulti, invece, sono un ottimo esempio di utilizzo “virtuoso” dei social: conversano, rispondono, parlano di qualsiasi cosa, e i fan ne sono estasiati.
Invito naturalmente tutti a visionare l'intervista integrale, decisamente più ricca di questa mia breve sintesi.
Buona visione!
Maria Petrescu | @sednonsatiata
Intervistato.com | Michael Brandvold
Together with Michael Brandvold, communication and marketing expert in the music and adult entertainment industry, we tackled a few topics such as crisis management online, using social media to increase sales and how VIPs should interact with fans.
We asked Michael how he started working in marketing in the music industry: he started very young, with the college radio, and then continued working and promoting bands and organizing events. The real change came when he started getting passioned about Macintosh and HTML, which at that time was completely new. He set himself the goal of learning how to program, and decided to build a website. Since he was a great KISS fan, he decided it would be a KISS website.
Published in 1995, the website had a huge success, so huge that a few years later Gene Simmons called him to build the official website of the band. He moved to San Francisco, and there spent the following few years working full time at building, launching and managing websites for celebrity bands and singers, from KISS to Madonna, to Britney Spears, to U2, and Ozzy Osbourne.
The main goal of these websites was to sell merchandise online, once all the tours were finished and it wasn't possible to sell on site during concerts anymore.
We asked how interaction with fans has changed with social media, and Michael thinks it has been a major change, without a doubt for the better. Before social meda, interacting with fans was difficult and very time consuming, because often, especially in the case of big celebrities, they didn't even want to interact with fans directly for obvious privacy and safety reasons. With Facebook and Twitter, they can talk directly wit fans in real time and have complete protection (well, it depends on what information you decide to publish on these platforms, of course).
As for the selling aspect, in Michael's opinion it should never be the first reason to be online. It should never be the main motivation to open a Facebook fanpage, a Twitter account or a website. Selling will come along once the relationship with the fans is built. You simply need to get online and talk, because at the core, that's what social media are all about: talking, listening and holding conversations.
Companies are extremely afraid of getting online because they don't want to listen, they're afraid of what clients might have to say. In the case of artists, the matter is even more delicate: Michael says that they need to get a very tough skin, and never take criticism personally. Everyone has an opinion, and there's no right or wrong: it's just an opinion. The biggest mistake is to delete unpleasant comments, because in that case you would only get the opposite effect.
We asked Michael how social media marketing works in the adult entertainment industry. It's a challenge: Facebook has very rigid terms and conditions of use, and doesn't even allow the publication of links pointing to an adult website. What can be done is promoting the "glamour" and building a relationship with the users, since selling the product isn't possible.
Talking about celebs on Twitter, a distinction must be done: there are some VIPs who are only now starting to use these tools, and just don't get them. On the other side we have the adult entertainment stars, who are a great example of using Twitter the right way: they talk, answer, talk about anything on their profiles, and fans absolutely love it.
I invite you to view the interview, definitely richer than my brief synthesis.
Enjoy!
Maria Petrescu | @sednonsatiata
Etichette:
adulti
,
interview
,
intervista
,
intervistato
,
intrattenimento
,
jacopo paoletti
,
KISS
,
maria petrescu
,
michael brandvold
,
music industry
,
social media
#Comizidamore: celebriamo amore e rispetto tutti i giorni! #nomofobia
Me ne accorsi definitivamente in un pomeriggio autunnale, 11 anni fa. Lei era bellissima, dolce, simpatica. Ma io non riuscivo ad andare oltre quell'affetto che si può dare ad una cara amica. Non riuscivo a provare quelle forti sensazioni che provavo quando vedevo lui, che non mi faceva dormire neanche di notte, che mi faceva chiudere lo stomaco al solo pensiero. Lui, a cui non potevo rivelare i miei sentimenti.
Sono passati 11 anni. 11 anni trascorsi ad attraversare vicoli bui e giornate di sole. 11 anni di battaglie. 11 anni di sconfitte di cui porto ancora le ferite. 11 anni anche di vittorie, quelle con cui mi sono guadagnato l'affetto e la stima non solo dei miei familiari (e, come ci insegna la quotidianità, non è sempre scontato...) ma anche di tanti sconosciuti, alcuni di loro poi diventati cari amici. Ho dovuto faticare il doppio. Perché non ero solo Fabio: ero Fabio, il gay. Quello che non amava fare a botte nei corridoi della scuola. Quello che non amava dire parolacce o volgarità nei confronti degli altri. Quello che amava starsene in disparte a leggere un libro o a scrutare l'orizzonte. Quello anche socievole e giocoso, con chi lo aiutava ad integrarsi.
Una volta un amico mi disse «Fabio, sei troppo profondo per essere un adolescente. Ecco perché hai pochissimi amici». Non so se sono profondo, di sicuro so che l'omofobia ha violentato il mio carattere, una volta gioioso e travolgente. Anche le gioie, spesso, si spezzano in fretta per lo straripamento di vecchi ricordi non ancora dormienti. Ma l'omosessualità non è questo. O almeno, non solo. L'omosessualità è felicità, è spensieratezza, è poesia. Come qualsiasi altra natura che vive in libertà la propria esistenza. E l'omofobia è l'unica malattia che colpisce chi ne è immune. Perché non ne sono affetti gli omosessuali ma gli stessi eterosessuali. E a volte non sono neanche definibili tali perché dietro certe violenze si nasconde anche la repressione della propria, latente, omosessualità.
E non basterà una legge (comunque sacrosanta) che punisca le violenze omofobe: serve una incisiva quanto travolgente rivoluzione culturale che parta dalla politica per invadere scuola, media e famiglie. Una rivoluzione culturale che metta al centro della propria azione il rispetto verso gli altri. Una rivoluzione culturale che insegni il valore della diversità.
Proprio per questo, vorrei celebrare il rispetto per chi è diverso tutti i giorni, non solo il 17 maggio di ogni anno. Sì, perché non ho alcuna difficoltà a definirmi "diverso". Ecco perché ci metto la faccia da quando avevo 13/14 anni (ora ne ho 25). Sarebbe un grandissimo risultato se queste parole riuscissero a smuovere la coscienza anche solo di una sola persona.
Perché, per dirla tutta: siamo tutti "diversi". E proprio per questo, la difesa e la valorizzazione delle diversità devono assumere un valore importantissimo. Dobbiamo essere tutti uguali solo davanti allo Stato, alla Giustizia. Per il resto, di innaturale ci sono solo l'odio e la violenza.
Fabio Nacchio | @Northernstar88
Let's celebrate love and respect every day
I definitely realized it during an autumn afternoon, 11 years ago. She was beautiful, sweet, nice. But I couldn't go beyond that affection you could feel for a dear friend. I couldn't feel those strong feelings I experienced when I saw him, who didn't let me sleep at night, who made my stomach tighten just by thinking of him. Him, whom I couldn't reveal my feelings to.
Eleven years have passed. Eleven years spent crossing dark alleys and sunny days. Eleven years of battles. Eleven years of defeats I still carry the signs of. Eleven years of victories, the ones with which I gained the affection and appreciation not only of my family (for, as we too often see, it is not something to be taken for granted), but also of many strangers, some of whom have become dear friends in time. I had to work double. Because I wasn't just Fabio: I was Fabio, the gay. The one who didn't want to fight in the school corridors. Tthe one who didn't like to say cuss words or vulgarities towards others. The one who loved to stay aside and read a book or look upon the horizon. The one who could also be friendly and playful, with those who helped him integrate.
Once a friend told me "Fabio, you're too deep to be a teenager. That's why you have so few friends." I don't know whether I'm deep, I surely know that homophobia has done violence to my character, which was once joyful and disruptive. Even joys, often, are broken fast because of old memories still burning. But homosexuality isn't this. At least, not only. Homosexuality is happiness, airiness, it's poetry. As any other nature that lives freely its own existence. And homophobia is the only disease that strikes those who are immune to it. Because homosexuals don't have it, heterosexuals do. And sometimes they cannot even be defined as heterosexuals because behind certain violences they have their own latent homosexuality hiding.
And a law (however just) won't be enough to punish homophobe violences: we need a definitive cultural revolution that starts from politics to invade schools, media and families. A cultural revolution that puts at the center of each person's actions, respect towards others. A cultural revolution that teaches the value of diversity.
For this very reason, I'd like to celebrate respect for diversity every day, not only on the 17th of May of every year. Yes, because I have no difficulties defining myself as different. That's why I've been honest and put my name on it since I was 13 (now I'm 25). It would be a great result if these words could move the conscience of even only one person.
Because, to be honest: we're all different. And because of this, the defense and valorization of diversity must gain an important role. We must be equal in front of the State and Justice. For all the rest, the only unnatural things are hate and violence.
Fabio Nacchio | @Northernstar88
Etichette:
fabio nacchio
,
gay
,
integrazione
,
intervistato
,
jacopo paoletti
,
maria petrescu
,
matrimoni gay
,
omofobia
,
omosessualità
sabato 18 maggio 2013
Intervistato.com | Lia Celi @liaceli
Qualche giorno fa abbiamo intervistato Lia Celi, scrittrice, giornalista e autrice televisiva italiana.
In primo luogo abbiamo chiesto a Lia che peso abbia la rete sulla libertà di satira: a suo avviso la rete concede tutte le libertà tranne quella di poter vivere di satira, rendendola il proprio mestiere. La affranca senz'altro dal fatto di essere considerata una "merce", rendendo liberi gli autori, dato che nessuno vende più il proprio talento, ma dall'altra parte non si può più farlo come mestiere e viverci.
Diventa un hobby, un lusso, e quindi figure come Michele Serra, i redattori o persino i grandi vignettisti sono figure destinate a sparire.
Per quanto riguarda la trasformazione del mestiere di scrivere, Lia ci ha raccontato che spesso le viene chiesto per quale motivo non esiste più un altro "Cuore". La motivazione è semplice: sarebbe necessario spendere di più in avvocati che in redattori, in quanto la sensibilità dei media per il politicamente corretto è diventata così suscettibile da legare e imbavagliare, di fatto, la satira.
L'unico terreno rimasto libero per sperimentare è la rete, che potrebbe essere considerata come una grande palestra dove è possibile veder sbocciare nuovi talenti. Un giovane alle prime armi, infatti, ha diritto di sbagliare: la rete permette di esprimersi con libertà, mentre fare gli stessi errori in un giornale potrebbe avere conseguenze ben più gravi. Ma Lia si definisce liberista e fiduciosa, perché un equilibrio si ristabilisce sempre: la satira del resto esiste dai tempi di Aristofane, trova sempre forme diverse, si reinventa, ma non scompare mai.
Abbiamo chiesto per quale ragione i politici italiani siano tanto recalcitranti alla satira, specialmente se colpisce le loro persone: a suo avviso il problema è culturale. Tempo fa c'erano figure di tale prestigio, che avere una vignetta dedicata era quasi una consacrazione, un simbolo di gloria, un'attestazione di esistenza nelle pagine della storia. La tolleranza nei confronti della satira è proporzionale all'esperienza e alla stoffa del politico, e infatti Giulio Andreotti non si è mai offeso, nonostante sul suo conto sia stato detto di tutto.
Il motivo per cui gli attivisti del M5S non amano la satira a loro rivolta è abbastanza simile, per certi versi: considerano se stessi come espressione di quella stessa base di cui fanno parte anche i satiri, per cui esserne presi in giro li mette tremendamente a disagio. Ma del resto la satira è un'osservazione oggettiva delle debolezze umane, e anche loro ne hanno: dovrebbero mostrarsi superiori ed accettarla. Del resto questa è la funzione storia, classica della satira: "castigat ridendo mores", addita i difetti umani per correggerli.
Il movimento ha ricevuto moltissime critiche anche per l'incoerenza riguardante la trasparenza interna: secondo Lia gli attori sono dei centauri, metà persone razionali e metà istinto, e aggiunge che avrebbe una certa paura ad affidare un grosso movimento politico ad un attore, perché quella cosa che lo rende un bravo attore - cioè la pancia -, è la stessa che fa di lui un politico inaffidabile.
Abbiamo chiesto a Lia dove trovi l'ispirazione per scrivere: a suo avviso l'ispirazione di tutte le cose è il piacere. Si fa qualcosa perché a farla si prova più piacere che a non farla, ed è il motivo che ci fa diventare tutto ciò che vogliamo. Si dice che il latino sia un'ottima ginnastica mentale, ma anche le battute aiutano a pensare meglio. La satira si basa sulla logica aristotelica, sul principio di non contraddizione, sulla filosofia, si usano le basi del pensiero occidentale.
E' un corso accelerato e molto piacevole di ragionamento, da usare in tutte le attività della vita.
Lia ci ha raccontato della sua esperienza con "Cuore", il futuro della satira, e ci ha svelato il segreto della sua incredibile prolificità creativa, quindi invito tutti a visionare l'intervista integrale, più ricca di questa breve sintesi.
Maria Petrescu | @sednonsatiata
Intervistato.com | Lia Celi
Yesterday we had the great pleasure of interviewing Lia Celi, an Italian journalist, writer and tv author.
First of all we asked Lia how it all started, and he revelead that it all began on YouTube last October, when he called Berlusconi on his birthday. Afterwards the Facebook fanpage was opened, and the Twitter channel activated. Pinuccio's language was reproposed on all mediums, but he never really gets an answer to his provocations, which says a lot on how Italian politics manages communication: one direction, no replies.
He believes that the best solution would be for each politician to personally manage his or her online presence, but the truth is that the cultural view of the Italian politician is really far away from the people. Twitter has emphasized that clearly, because they think they can do talk shows on there, not realizing that nobody's actually listening to them anymore.
We asked what satire is for him: he believes it is what it has always been, the pranking of power. The mission of satire is social, putting in light the mistakes of that particular moment, and in what ways the political power is doing it wrong. Moreover, satire should be at 360°, and not have any kind of political color, but unfortunately in Italy - especially in TV - satire always has a color, and you notice it right away when a commedian attacks someone more violently than others.
The shift from paper to the Internet has given the possibility to change the generation of those who actually do satire, because in order to publish on certain newspapers you had to have certain friends and certain recommendations. The web allows everyone to be completely free, and this is the reason why it scares traditional media so much.
Traditional journalism is dead, because it has always been for sale to politics: there's the right wing newspaper, the left wing newspaper, the businessmen newspaper, but the dynamics of online are completely different. The users dedicate just a few minutes of attention to every single stimulus, so the goal is to make people laugh and give them the news at the same time.
The way Italian politicians approach social media is a complete failure: it's not just about quantity, like how many followers you have, or how many mentions and retweets. It's most and foremost a quality issue, when it comes down to analyzing the sentiment of those answers. Alessio estimates that 80% of the answers politicians receive online are actually negative ones, but unfortunately there are only a few analysts who will not blow smoke and will take these factors into consideration as well.
In October November, however, the elections campaign will start, and Lia Celi will participate as well with some dedicated formats. It is difficult to foresse whether the quality of the presence on social networks of single politicians will have any kind of influence on the result of the elections. Unfortunately estimating the difference from the real deal just by what happens online is complicated, and Italy is a "people of clientele", too tied up to the physical contact with the politician to actually be influenced by what happens on social networks.
Maria Petrescu | @sednonsatiata
Iscriviti a:
Post
(
Atom
)
▼ Leggi i migliori della settimana
-
Cosa resta dei ricordi? una vecchia foto, un oggetto del passato, un libro. Aprendo un vecchio baule, anche dopo anni, si resta sempre colp...
-
Qualche tempo fa abbiamo avuto il piacere di intervistare Amedeo Balbi, astrofisico italiano, nonché autore del blog scientifico Keplero. ...
-
Il successo di critica e di pubblico raccolto dal terzo capitolo della trilogia di Batman diretta da Christopher Nolan, la cui trama è ben r...