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martedì 15 gennaio 2013
Avere un blog non è una professione: è usare uno strumento
“Lui? E’ il blogger di Telecom, lei, invece, è quella di Vodafone” mi disse un amico, durante un evento, accennandomi a due persone poco distanti da noi. Mi colpì l’attribuzione di appartenenza aziendale per due blogger e, soprattutto, mi colpì il fatto che fosse, alla fine, cosa nota un po’ a tutti.
Recentemente Federico Evangelisti, sul suo blog, ha postato una riflessione interessante proprio sul rapporto fra blogger e aziende. La tesi di Federico suona più o meno così: come si possono considerare autorevoli e affidabili i blogger, visto che sono sempre più “coinvolti” dalle aziende e quindi tendenzialmente magnanimi con le stesse? Alla fine poi propone una sorta di codice deontologico per i blogger stessi.
La provocazione del codice deontologico è interessante, perché apre un quesito tutt’altro che banale. La deontologia presuppone una professione e quindi: esiste la professione di blogger? E se sì, in cosa consiste?
La risposta non è né semplice né immediata. Andiamo con ordine. Per chi lavora, come me nella comunicazione aziendale e si occupa di Web è la norma, ormai, vedere eventi pensati per i blogger (qualcuno ricorda “MeetFs”, al netto delle polemiche che innescò?), cene, inviti a conferenze stampa e presentazioni, invii di prodotti in prova, coinvolgimento di questi personaggi come testimonial o come “detonatori” di viralità nell’ambito di eventi (“chiamiamo un blogger e facciamogli fare il live twitting” si sente dire nelle stanze degli uffici comunicazione di grandi aziende).
I blogger quindi si stanno sempre più definendo come “attori di processi di comunicazione”, forti della loro posizione di “influencers”. Hanno un pubblico e si stanno sempre più avvicinando ad essere “media”. Il loro mestiere è quindi sovrapponibile a quello di un giornalista? Per alcuni sicuramente sì. In particolare quelli che scelgono di “fare informazione” e in molti casi la fanno anche meglio dei giornalisti stessi (rischiando molto e in prima persona), ma sono decisamente una minoranza.
Accanto a questi ci sono quelli che fanno altri mestieri e che utilizzano un blog per dire semplicemente quello che pensano, per contribuire a discussioni e dibattiti. Opinionisti, li potremmo chiamare, apprezzati per la loro preparazione specifica e per il valore delle loro opinioni, sono a tutti gli effetti gli editorialisti della Rete.
In mezzo a queste due “categorie” ci sono tutti i blogger che si specializzano in particolari settori merceologici e instaurano rapporti con questa o quell’azienda. Gli “esperti”, li potremmo chiamare, in grado (così si ritiene) di decretare il successo di un prodotto o affossarne le speranze commerciali. Il post di Federico Evangelisti si riferiva soprattutto a questi, fermo restando che queste tre categorie sono tutt’altro che tre silos stagni, anzi, i confini sono talmente sfumati da essere difficilmente visibili.
E quindi? I blogger fanno tre lavori diversi? In realtà il minimo comun denominatore è che il postare, avere un blog, essere un blogger non è un mestiere ma un mezzo. Oggi il blog serve per ottenere visibilità e farsi un nome, per ottenere commesse, consulenze, contratti, per entrare nel “giro buono”. Insomma il blog è, quasi sempre, uno strumento di personal branding. Anzi, è “LO” strumento. Non sempre e non comunque, sia chiaro, ma la tendenza è indiscutibile.
Così, si diventa blogger per poi riuscire a essere influencers e quindi determinanti per una o più aziende e intrecciare rapporti con queste. Si apre un blog per costruirsi un’autorevolezza in un settore per poi proporsi come consulente o esperto. Si apre un blog e si cerca di diventare “personaggi”, per poi essere chiamati a fare da testimonial o altro. E ancora si apre un blog, si accetta di posizionarlo sulle piattaforme di grandi siti d’informazione, gratuitamente, per ottenere quella visibilità utile a cercare di scavarsi un posto come giornalista o comunque nel mondo dell’informazione.
Che c’è di male in tutto questo? Nulla, in realtà. L’autorevolezza di un blogger dipende dalla community, si dirà, quindi se le persone continuano a seguirlo, vuol dire che, alla fine, non svolge male il proprio “ruolo” informativo o comunque è apprezzato e se da questo trae una qualche forma di vantaggio, fosse pure economico, ben venga.
L’unica cosa che forse val la pena fare è sgombrare definitivamente il campo dall’esistenza dalla categoria dei blogger “puri”, almeno in Italia. secondo i dettami filosofici degli albori della Rete, ovvero quelle voci libere che avevano il compito di nutrire la conoscenza collettiva della Rete, trovando contenuti di valore e mettendoli a disposizione della comunità.
Il blogging è quindi entrato in una nuova dimensione, sempre più a servizio del personal branding del blogger stesso. Si apre un blog per “secondi fini”, il che, di per sé, non è un male. In questo senso, il Web offre una opportunità preziosa, una possibilità che prima non esisteva. Poi, una volta attivi nel grande mare del Web, quel che conta è ciò che sai fare e il valore di ciò che scrivi e questa è una forma di meritocrazia più unica che rara.
L’importante è smetterla di ammantare il blogging di significati culturali e libertari che ormai non ha più o ha in forma residuale, per il resto, viva i blog!
Daniele Chieffi | @danielechieffi
Keeping a blog isn't a job: it's using a tool
"Him? He's the blogger of Telecom, she's the blogger of Vodafone" said a friend, during an event, showing me two people at a small distance. I was stunned by the attribution of company belonging for two bloggers, and most of all, I was amazed by the fact that in the end it was something that everyone knew.
Recently Federico Evangelisti has posted an interesting analysis on the relationship between bloggers and companies. Federico's thesis is more or less this: how can you consider bloggers to be reliable and trustworthy, since they are more and more involved by companies and tendentially generous with them? In the end he proposes a sort of code for the bloggers themselves.
The code provocation is interesting, because it opens a whole array of questions that are all but futile. Deontology presumes a profession so: is there such a thing as the profession of blogger? And if yes, what is it?
The answer isn't simple nor immediate. Let's proceed with order. For those who, like me, work in company communication and deals with the web it's normal, now, to see events that are thought for the bloggers (does anyone remember "MeetFS", beside the criticism that it caused?), dinners, invitations to press conferences and presentations, products sent in trial, engagement of these people as testimonials or detonators of virality in the field of events ("let's call a blogger and make him do the live tweeting" you can hear in the rooms of the communication offices of great companies).
The bloggers are defining themselves more and more as "actors of communication processes", strong in their position of "influencers". They have an audience and are getting closer and closer to being "media". Their job is hence overlapping with that of a journalist? For some, definitely yes. In particular those who choose to "do information" and in many cases they do it even better than the journalists themselves (risking a lot in first person), but they're definitely a minority.
Next to these there are also those who do other jobs and who use a blog simply to express what they think, to contribute to discussions and debates. Opinionists, we could call them, praised for their specific preparation and for the value of their opinions, are by all rights the editorialists of the Web.
In between these two "categories" there are all the bloggers who specialize in particular fields of products and create relationships with this or that company. The "experts", we might call them, capable (or so it is believed) of determining the success of a product or grounding its commercial hopes. Federico Evangelisti's post referred especially to them, considering that these three categories are not, by all means, compartimentalized, but have boundaries so blurry it's hard to detect them.
So? Bloggers do three different jobs? In reality the least common multiple is that posting, having a blog, being a blogger isn't a job but a tool. Today the blog has the function of getting visibility and building a name, in order to obtain jobs, consultancies, contracts, to enter the "good circle". So the blog is, almost all the time, a tool of personal branding. Actually it is "THE" tool. Not always and not anyhow, let it be clear, but the tendency is undeniable.
So, you become blogger to then manage to become an influencer and determinant for one or more companies, and build relationships with them. You open a blog to build some authority in a field and then propose yourself as a consultant or expert. You open a blog and you try to become a "character", in order to get called as testimonials or other things. E again, you open a blog, you accept to position it on the platforms of great information websites, for free, to obtain that visibility useful to try and get a place as a journalist or in the world of information.
What's bad in all of this? Nothing, to be honest. The authority of a blogger depends on the community, it will be said, so if people continue to follow him it means that, in the end, he doesn't do his information "job" bad, or at least he's appreciated, and if out of this he can get some sort of advantage, even economical, then it's all for the best.
The only thing that maybe it's worth doing is definitively emptying the field from the existence of the category of "pure" bloggers, at least in Italy. According to the philosophical guidelines at the beginning of the Web, those free voices that had the role of feeding the collective knowledge of the Web, finding valuable content and making it available to the community.
Blogging has entered a new dimension, more and more at the service of the blogger's personal branding. You open a blog for "second means", which by itself isn't bad. In this sense, the Web offers a precious opportunity, a possibility that didn't exist before. Then, once you are active in the great sea of the Web, what matters is what you can do and the value of what you write and that is a form of meritocracy that is more unique than rare.
The important thing is to quit clothing the blog with cultural and libertarian meanings that it doesn't have anymore, or that has in minimum measure. For the rest, go blogs!
Daniele Chieffi | @danielechieffi
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5 commenti :
mi viene un dubbio: non è che la persona di cui si parla all'inizio ha confuso il termine blogger con quello di social media manager?
Se ne parlava tanto prima di Facebook e ai tempi di Wommi. Ora il discorso mi sembra un pò vecchiotto no?
No, Ilaria, ti posso assicurare che si parlava proprio di blogger, considerati "ingaggiati" dalle due telco che ho citato
Stefano, se dici così è perché dai ormai per acquisito quello che sostengo? Sono d'accordo, solo che, a volte, chiamare chiaramente le cose col loro nome può giovare
mah!! cioè nel mio campo ci sono diverse blogger che collaborano in maniera stretta con alcune case ma non è mai in maniera esclusiva, a volte non è nemmeno retribuita, a volte è uno "scambio merci". non la vedo bene questa cosa...
cmq vorrei chiederti: che tipo di blogger sono? sono lifestyle/fashion o...blogger di TLC? (ne esistono??)
grazie!!
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