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venerdì 8 febbraio 2013

Divieto di #tortura: il vero banco di prova per la nostra #democrazia



Alla luce della sentenza emessa dal Tribunale di sorveglianza di Bologna sul caso Aldrovandi, la quale ha condannato tre dei quattro poliziotti ad una pena di 6 mesi di carcere per eccesso colposo in omicidio colposo, il dibattito sul reato di tortura ha ripreso vigore tra l’opinione pubblica italiana, benché il tentativo di introduzione dello stesso all'interno del nostro codice penale sia fallito molteplici volte prima della conclusione del suo iter parlamentare.

Oggi ancor di più ci si chiede come sia possibile che i responsabili di tali reati possano soltanto ricevere una pena di sei mesi, beneficiando dell’indulto e usufruendo della prescrizione per dei crimini che a livello normativo internazionale sono considerati crimini contro l’umanità e perciò non dovrebbero essere prescrittibili.

Lo Stato italiano è firmatario di molteplici documenti redatti dall’ Organizzazione delle Nazioni Unite in tema di divieto di tortura: Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, Patto internazionale sui diritti civili e politici, Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti e il suo Protocollo opzionale.

Essa fu inoltre tra i primi paesi firmatari della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, trattato internazionale redatto dal Consiglio d’Europa nel 1950 che sottopone l’Italia alla giurisdizione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Nonostante l’impegno preso tramite la ratifica dei documenti sopra elencati, il nostro paese non ha mai inserito il reato di tortura all’interno del suo codice penale.

Al contrario di quello che in molti pensano, la nostra Costituzione (e in particolare l’art. 13) non è di per sé sufficiente a garantire una condanna ad una pena adeguata in casi simili.  Affinché ciò accada è necessario, in conformità all’ art. 4 della Convenzione, inserire all’ interno del nostro codice penale il reato che dia una definizione più esaustiva di tortura e di trattamenti crudeli, inumani e degradanti e stabilisca le pene da infliggere ai responsabili della sua violazione.

I giudici italiani, nei casi come quello di Luciano Rapotez (1955) o quelli, più recenti, della scuola Diaz e delle morti di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, non hanno che potuto mettere in luce la propria impotenza nel poter condannare i responsabili a una pena adeguata.

Nel 2007, il Comitato ONU contro la tortura (CAT) ha redatto le sue considerazioni riguardo la situazione esistente in Italia in materia di tortura. Ebbene, ciò che ne traspare non è assolutamente un parere positivo, viste le enormi questioni ancora irrisolte dallo Stato italiano quali il sovraffollamento delle carceri, l’uso sproporzionato e l’eccessiva durata della detenzione preventiva, la lesione delle garanzie fondamentali per le persone arrestate dalla polizia ( con particolare riguardo verso il Decreto Pisanu del 2005), la detenzione prolungata dei richiedenti asilo nei Centri di Permanenza Temporanea (specialmente dopo l’introduzione della legge Bossi-Fini del 2002), le espulsioni collettive da Lampedusa che violano il principio di non-refoulement enunciato nell’ art. 3 della Convenzione, la violazione del medesimo principio nei casi di sospetto coinvolgimento in attività terroristiche (secondo le procedure presenti nell’ art.3 del Decreto Pisanu), il mancato addestramento delle forze dell’ordine italiane all’ impiego di mezzi non violenti e il conseguente uso eccessivo della forza durante le manifestazioni di Napoli (marzo 2001), di Genova (luglio 2001), nell’ambito del Summit del G8 e in Val di Susa (2005) e durante le partite di calcio, l’inesistenza di badge identificativi che assicurino la responsabilità individuale delle forze dell’ordine in caso di comportamenti vietati dalla Convenzione (con particolare riferimento al caso del G8 di Genova).

Il carattere non vincolante del Rapporto del CAT permette all’Italia di evitare sanzioni per non aver tenuto conto delle raccomandazioni del Comitato, ma ciò non toglie il fatto che il nostro Paese continui ad essere decisamente indietro in tema di divieto di tortura e, più in generale, di tutela dei diritti umani (tema illustratoci da Matteo Castellani Tarabini nel suo articolo qualche giorno fa).
La recente ratifica del Protocollo opzionale alla Convenzione è soltanto un piccolo passo compiuto dal nostro Paese in materia, anche se sarà dovere del Parlamento legiferare in materia e compiere, così, un degno atto di civiltà.

Eppure oggi, molti parlamentari continuano a non dare importanza all’ argomento o, ancor peggio, a reinterpretare i fatti arrivando addirittura ad accusare le stesse vittime. Accadde nel 2008, quando Roberto Castelli dichiarò in un’ intervista a Repubblica che i trattamenti inumani e degradanti avvenuti per mano delle forze dell’ordine nella caserma di Bolzaneto fossero tesi dei pm da non prender come oro colato, che i fatti fossero stati “equivocati dagli imputati” e che l’obbligo per i detenuti di rimanere nella posizione del cigno per ore non fosse “anomalo in una notte come quella”, anche perché anche “i metalmeccanici stanno in piedi otto ore al giorno e non si sentono umiliati e offesi”.

All’ormai ex Ministro della Giustizia non venne mai in mente che la Convenzione ONU firmata e ratificata dal paese che egli rappresentava non ammette la derogabilità del divieto, e ancor meno pensò di scusarsi per le dichiarazioni riguardo dei fatti che furono considerati da Amnesty International come “la più grande sospensione dei diritti democratici di un paese occidentale dopo la fine della seconda guerra mondiale”. Secondo Castelli, la colpa del mancato inserimento del reato di tortura all’ interno del codice penale è “del legislatore di sinistra che ha presentato un testo inaccettabile, in cui si parlava di torture di natura psicologica, per cui io potrei accusare di tortura Prodi visto che ogni volta che lo vedo mi sento male".

Qualche giorno fa, invece, è stata la volta di Carlo Giovanardi, il quale ha accusato Ilaria Cucchi di sfruttare la morte del fratello avvenuta, secondo il senatore del PdL, per mano dei “suoi amici spacciatori”. A nessuno, neppure tra i membri del suo ufficio stampa, è mai venuto in mente di fargli notare che la creazione di un' autorità nazionale indipendente per i diritti umani in linea coi Principi di Parigi e l'istituzione di un meccanismo nazionale di prevenzione secondo le linee poste dal Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura avrebbero potuto evitare la tragedia della morte di Stefano Cucchi e di tanti altri carcerati tanto quanto avrebbero potuto intervenire con misure adeguate per ovviare alle indegne condizioni in cui son costretti a vivere i detenuti all’ interno delle carceri italiane.

E’ ovvio che sia assolutamente necessario spostare il dibattito affinché le vittime siano considerate come tali e vengano loro riconosciuti ampi diritti, in linea con il diritto internazionale e le convenzioni ratificate dal nostro paese.

Così come sosteneva il giurista Antonio Cassese, “la tortura costituisce l’aspetto patologico dell’assenza di democrazia”, perciò il suo divieto è una delle prime pietre da posare per dimostrare l’effettività del nostro stato di diritto. E noi, come cittadini italiani, ci auguriamo che essa venga posata ben presto.

Veronica Orrù | @verocrok

Photo credit: Rachael Roberts

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