Pochi giorni fa Andrew Keen, autore di "Cult of the Amateur" e "Digital Vertigo", ci ha concesso una interessante intervista a proposito di editoria e futuro dei giornali.
In primo luogo abbiamo chiesto ad Andrew come si sia evoluto il suo pensiero riguardo alla dura critica del web 2.0 che ha portato avanti negli ultimi anni: a suo avviso la sua è una critica condivisa da molte altre figure, ed esposta in maniera dettagliata all'interno del libro "Cult of the Amateur", pubblicato nel 2007. All'epoca il testo fu molto criticato in quanto sollevava due o tre questioni molto spinose: il concetto che la free digital economy non fosse sostenibile, e che sarebbe stato davvero difficile per coloro che producono contenuti fare soldi con la pubblicità, e questo si è rivelato in gran parte vero.
Allo stesso modo, le case discografiche, gli editori, i produttori, si trovano in una crisi ancora più profonda oggi: non che stiano sprecando soldi, ma la verità è che la maggior parte dei blog non si sono trasformati in business di successo, e spesso offrono i propri contenuti gratuitamente. Nemmeno utilizzando una rete distribuita come YouTube è possibile guadagnare. Un altro aspetto è quello legato alla pirateria, che secondo Andrew distrugge l'industria culturale e lascia indietro caos e anarchia, sia in termini culturali che politici.
Non esiste dunque una soluzione miracolosa per questo problema: su Internet tutti possono pubblicare, ma questo non significa che abbiano anche la possibilità di sostenersi economicamente con quelle attività. Questa economia non rende il self-publishing un business sostenibile, e persino le aziende più innovative come Spotify hanno moltissime difficoltà a rimanere a galla, e i ricavi sono davvero minimi. Tutte queste sono le ragioni per cui Andrew è molto scettico riguardo al modo in cui le nuove piattaforme possano supportare una economia culturale dando la possibilità agli artisti di guadagnarsi da vivere, che in fondo è ciò che più lo interessa sia a livello personale che politico.
La speranza riposta nella democratizzazione dell'accesso agli strumenti di pubblicazione era che il merito potesse venire premiato, ma secondo Andrew il vecchio sistema di riconoscimento del talento non era poi così fallace. Non era certamente perfetto, ma del resto non lo è nemmeno il nuovo, secondo cui la selezione avverrebbe naturalmente in base al numero di visualizzazioni di YouTube: purtroppo però in quei casi si tratta di persone capaci di costruire un video virale di 30 secondi, e di utilizzare una serie di strumenti di marketing relativamente sofisticati. Grande scetticismo, dunque, sul concetto che la democratizzazione della cultura stia effettivamente permettendo al talento di emergere.
Abbiamo inoltre parlato di finanziamenti pubblici ai giornali, a suo avviso una grande piaga: esiste la possibilità di avere giornali di successo senza finanziamenti pubblici, e di esempi ce ne sono diversi, a partire dal New York Times. Hanno un impatto negativo perché generano risentimento, ed è difficile pensare che siano oggettivi. Bisogna basarsi sul mercato, e se un mercato per il prodotto giornale non esiste, allora vuol dire che le persone non se lo meritano e vivranno senza: quello di avere i giornali non è un diritto dato da Dio, quindi se l'economia non funziona, allora moriranno.
L'unico modo per sopravvivere online è il paywall, tutti gli altri modelli di business non funzionano, e le notizie non dovrebbero essere gratuite, non più di quanto non lo sia il cibo, l'affitto o una macchina, peché i giornalisti devono poter essere pagati. Quella delle notizie gratuite è un'idea carina, ma nella pratica è assurda.
Maria Petrescu | @sednonsatiata
10minuteswith Andrew Keen
First of all we asked Andrew how his criticism of web 2.0 evolved in time: his is a critique shared by many other figures, and explained in detail in his book "Cult of the amateur", published in 2007. At the time the book was criticized because he made two or three arguments, he suggested that the free digital economy wasn't viable, and that it would be very hard for those producing content to make money off advertising, which actually proved to be a correct prediction.
In the same way, records comanies, publishers, producers, are in more of a crisis now than before. He doesn't intend that they're wasting money, but the truth is that most blogs didn't develop into real businesses, and mostly they're giving stuff away for free. Even with a distributed network like YouTube it's hard to make any money. Another matter is the piracy, which is very bad because it destroys the cultural industry and leaves behind chaos and anarchy, both from a political and a cultural point of view.
There is no miraculous solution, the Internet allows everyone to publish, but doesn't enable you to make a living out of it. This economy doesn't make self publishing a viable business, and even the sexy businesses like Spotify are struggling to stay afloat, and the revenue for artists is really minimum. This is why Andrew is skeptical about the way the new technological platforms can support a cultural economy and give artists the possibility of earning a living, which is what interests him most both at a personal and political level.
The hope was that the democratization of access to publishing tools would reward merit, but according to Andrew the old system for recognizing talent wasn't so bad after all. It wasn't perfect, but neither is the new one, according to which the selection happens naturally based on the number of views on YouTube: unfortunately the most viewed are people who are able to build a 30 second viral video and have the capacity of using relatively sophisticated marketing tools. He is very dubious on the concept that the democratization of culture is actually allowing talent to rise.
We also talked about state aids to newspapers, in his opinion a great plague: there is the possibility to have successful newspaper without any kind of State aids, and there are several examples to prove it, starting with The New York Times. They have a negative impact because they generate resentment, and it's really hard to guarantee that they are objective, whereas the best newspapers are the biased ones, in Andrew's opinion. These decisions must be based on the market, and if the market for newspapers is non existent, then people don't deserve them and will have to live without them: having newspapers isn't a God given right, so if the economy doesn't work, they will disappear.
The only way to survive online is the paywall, all other business models don't work, and news shouldn't be free, not more than food, rent or cars, because journalists must be paid. The idea of free news is cute, but in practice it is absurd.
Maria Petrescu | @sednonsatiata
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